Tenendo fede alla tradizione inaugurata nel 2009, quando portò per la prima volta nelle nostre sale Il mio vicino Totoro (1988), la Lucky Red tira fuori dal cilindro il suo quarto Hayao Miyazaki d'annata: Kiki consegne a domicilio (1989), spesso ritenuto un film minore nella carriera del sensei giapponese. Questo, intendiamoci, non perché sia poco riuscito o banale, ma in quanto privo della problematicità della maggioranza delle opere miyazakiane.
Tratta dall'omonimo romanzo di Eiko Kadono, la pellicola segue le avventure della tredicenne Kiki, che, come ogni giovane strega della sua età, lascia la famiglia per compiere un noviziato di un anno in una città a sua scelta, dove dovrà trovarsi un lavoro e mantenersi da sola. Una volta arrivata nella marittima Koriko, consapevole di non saper fare altro che cavalcare la propria scopa, Kiki pensa bene di instituire un servizio volante di consegne a domicilio.
Pur avendo per protagonista una streghetta, non siamo alle prese con un film di magia. A parte il volo, l'unico prodigio in cui Kiki riesce è dialogare con il suo gatto nero Jiji. Per il resto è una ragazzina il cui passaggio dall'infanzia all'adolescenza si attua attraverso un percorso di emancipazione lavorativa, un po' come succede a Chihiro ne La città incantata, togliendo però dal contesto cattivi, pericoli, bizzarre creature e incantesimi. In fondo le due donne che accolgono Kiki, la panettiera Osono e la pittrice Ursula, incarnano rispettivamente la professionalità e l'indipendenza, due caratteristiche femminili molto care a Miyazaki, quasi una sfida per il Giappone conservatore. Gli uomini invece (escludendo il sognatore Tombo, coetaneo e amico della protagonista) restano comparse sullo sfondo di un paesaggio concepito immaginando una sorta di Svezia idilliaca mai toccata dalla Seconda Guerra Mondiale.
Kiki è una storia semplice, ma non semplicistica, che conserva immutata la propria freschezza a distanza di oltre vent'anni. A volte per emozionarsi basta un sussurro.