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Ben Wang in Columbia Pictures KARATE KID: LEGENDS
Uno spettro si aggira sulla galassia Karate Kid: dopo sei film in quarantun anni, rimpolpanti anche da altrettante stagioni di Cobra Kai (Netflix), a furia di scommettere sull’operazione nostalgia, su volti, atmosfere e motivi ormai iconizzati, quindi mitopoieticamente sterili, il sentore è che il celebre (e longevo) franchise d’arti marziali possa evaporare in un vortice di ripetizione ed iterazione dell’identico.
Magari Karate Kid: Legends, che sta già affollando le sale americane (approderà nelle nostre giovedì 5 giugno) ci smentirà sbancando i botteghini e colonizzando l’immaginario di nuovi combattenti in erba, ma questo nuovo capitolo, ambientato tre anni dopo la fine degli eventi seriali, non rischia nulla, non incanta né trascina, non brilla per novità. Né tematica, né stilistica.
Difatti la trama rimette al centro un’adolescente, Li Fong, che, morto il fratello in combattimento, è strappato da Pechino a New York dalla madre dottoressa col divieto assoluto di dedicarsi alle arti marziali in America. Il gestore del Victory Pizza, pugile suonato ora pizzaiolo e soprattutto padre della radiosa Mia (una convincente Sadie Stanley), mettono alla prova la proibizione: bisogna abbassare le penne al temibile bullo locale Connor Day nell’ambito torneo cittadino di karate 5 Borroughs. Col premio, Li “Crosta ripiena” si riscatterebbe dalle umiliazioni patite al college, e la pizzeria ripianerebbe i debiti contratti con loschi strozzini. In soccorso del protagonista, combattuto tra vocazione e proibizione familiare, arrivano Daniel LaRusso (Ralph Macchio che rindossa l’uniforme che l’ha reso celebre e si fa strategicamente anche co-produttore del film) e Mr. Han (il solito Jackie Chan). Gli allenamenti massacranti che incrociano kung fu e karate cui il duo sottopone Li basteranno per mettere al tappeto il teppistello newyorkese?
Insomma niente di nuovo sotto il sole cino-americano per un film pur godibile, ma tutto di produzione, che tra easter egg, omaggi, raccordi di saga e crossover che per brevità non snoccioliamo, non aggiunge memorabilia all’album Karate Kid, anzi si rintana nelle prevedibili esuberanze registiche (le dronate metropolitane su New York), nella ronzante colonna sonora, nel consueto montaggio alternato (Colby Parker Jr) per i segmenti di addestramento e soprattutto in una sceneggiatura (Rob Lieber, novellino nella saga) che più tradizionale non si può. Siamo di fronte al classico viaggio del giovane eroe emarginato, con immancabile sottotrama amorosa e trauma famigliare, che tra, aiutanti e oppositori, è a caccia del riscatto personale e comunitario. I personaggi femminili, manco a dirlo, sono solo di spalla.
La regia di Jonathan Entwistle si diverte a incoraggiare il multiculturalismo, sottolineando, tra calembour e gag gastronomiche, come la cultura cinese possa attecchire e innestare quella italo-americana. E viceversa. L’architrave favolistica e il tono umoristico del film, infatti, battono il tasto sulla necessità assoluta di incontrare, ibridare, connettere arricchire culture sideralmente distanti, apparentemente incompatibili.
Che per una saga da sempre contemporaneista, in epoca di sovranismi in salsa trumpista non è poco, ma neanche abbastanza.