A quattro anni dal Grande progetto - il documentario che chiudeva la trilogia su Napoli - e a sei dalla sua ultima volta a Venezia (in concorso con il deludente L'ora di punta), Vincenzo Marra torna al Lido - stavolta alle Giornate degli Autori - e al documentario: Il gemello è fuori dal trittico partenopeo, ma sempre ambientato a Napoli, ovvero nel carcere circondiarale di Secondigliano, una sorta di città dentro la città. Città invisibile, ma non calviviana: lì di sogni e di visioni ce ne sono ben pochi.
"Il gemello" è il nomignolo di Raffaele, ventinove anni e due fratelli gemelli. E' entrato in carcere all'età di quindici per aver rapinato una banca, da dodici vive lì dentro. Quando uscirà diventerà probabilmente uno degli astri nascenti della camorra. Armato di macchina a mano e pazienza, Marra segue lui e gli altri abitanti del carcere (secondini compresi) in un viaggio ripetitivo e senza fine, restituendo allo spettatore il dramma senza fiction della prigione. Dimenticate i triti e ritriti stereotipi del prison-movie: a Secondigliano la vita è soprattutto ripetizione, regole, riti che si susseguono non sempre secondo logica. Vediamo Raffaele entrare e uscire dalla sua cella, in continuazione; fare telefonate, colloqui, andare avanti e indietro nell'ora d'aria; pulire e lavorare, cantare e fumare. Non c'è traccia di quella diffidenza tra poliziotti e reclusi a cui il cinema carcerario ci aveva abituato. Non c'è nemmeno violenza. Screzi e antipatie normali tra detenuti e un po' di calcolata compiacenza nei confronti delle guardie. Nulla che non appartenga alla categoria dell'umano, dimensione persino sublimata nel rapporto di comprensione e pietà che alcuni poliziotti sanno instaurare con i condannati. Nessun giustificazionismo intendiamoci, le colpe rimangono e le pene pure: ma questi corpi che si staccano dallo sfondo uniforme dei cliché per riacquisire una nuova definizione umana sono reali, ed è con loro, e non con le figurine ritagliate sui giornali, che bisogna confrontarsi se si vuole aprire un dibattito serio sul carcere.
C'è manipolazione, ci mancherebbe - stacchi di montaggio, taglio delle inquadrature, primi piani - ma è finalizzata a nascondere, forse persino a limitare, l'artificio. Marra coglie inoltre qualche verità non banale sulla condizione della vita in carcere. Lo fa per bocca di Raffaele quando il ragazzo dice di preferire la pena di morte all'ergastolo, che sarebbe una morte solo più lenta; o quando ammette che la cosa più insostenbile della galera è l'affiorare continuo dei sensi di colpa nei confronti dei genitori. Terribile, se non ci fosse qualcosa di ancora più tremendo: lo intuiamo nel continuo affaccendarsi senza meta di questa gente, nell'attesa snervante che il rigido calendario del carcere distilli i suoi appuntamenti, nella conta dei giorni, nel minuzioso calcolo degli espedienti che potrebbero consentire una riduzione della pena. Nel fatto che nel film di Marra non ci sia nemmeno un orologio. La loro presenza sarebbe insostenibile per chi è un naufrago delle ore. Ed è qui che il documentario di Marra si eleva da semplice calco della realtà a puro affare di cinema, nell'anatomia di un tempo ucciso, sospeso, gemello di una vita rappresa.