Il diorama di un calamaro e una balena occupa un'intera sala del museo di storia naturale. Quello spettacolo al tempo stesso accattivante e spaventevole condiziona, sin dalla tenera età, i pensieri del sedicenne Walt Berkman (Jesse Eisenberg). Ma è un'ossessione latente, sotterranea. Un nonnulla, forse, se rapportato a quanto - insieme al fratello di quattro anni più piccolo (Owen Kline) - dovrà affrontare all'indomani di una notizia sconvolgente: i genitori Bernard (Jeff Daniels) e Joan (Laura Linney), ex romanziere di successo lui, promettente scrittrice lei, hanno deciso di separarsi. E loro, fino a quel momento abituati a vivere in una "famiglia", saranno costretti dagli eventi a doversi confrontare con "i giorni alterni" e i traslochi settimanali, finendo inevitabilmente per schierarsi differentemente a favore di un genitore, osteggiando l'altro. La crescita è un processo inesorabile: Walt e Frank ne faranno le spese allo stesso modo, ma con percorsi naturalmente asincroni. Uno cercherà di convincere "il mondo" di essere l'autore della canzone Hey You, scritta in realtà da Roger Waters e resa celebre dai Pink Floyd; l'altro inizierà a bere birra e a lasciare tracce di una poco ordinaria precocità sessuale. Premiato al Sundance 2005 per miglior regia e sceneggiatura, Il calamaro e la balena di Noah Baumbach - al quarto lungometraggio e reduce dalla collaborazione con Wes Anderson (qui produttore) per Le avventure acquatiche di Steve Zissou - inizia su un campo da tennis: il doppio che si sta giocando, padre e figlio maggiore da una parte, madre e secondogenito dall'altra, la dice lunghissima sul clima non propriamente sereno che accompagna i giorni della famiglia Berkman, lasciando già presupporre quelli che potrebbero essere gli squilibri futuri. Vagamente autobiografico, per questo ambientato nella Brooklyn del 1986 e girato in super16 proprio per garantire che la grana della pellicola ricordasse le opere indipendenti di quel periodo, il film di Baumbach è filologicamente affine a quell'idea di cinema che, da qualche anno a questa parte, sta caratterizzando le migliori opere svincolate dalle majors e provenienti dagli Stati Uniti: "incisivo, sentito e dolorosamente divertente", lo definisce il Los Angeles Times. E non pensiamo possano esserci aggettivi migliori per sintetizzarne la portata.