Il grande artista David Hockney ha sottolineato che servono nuovi modi di vedere, di sentire. E che non si può avere tempo senza spazio e spazio senza tempo. Sembra un gioco di parole, ma è proprio l’essenza di Hors du temps, il nuovo film di Olivier Assayas presentato in concorso alla Berlinale. Spazio e tempo sono al centro di un incedere “sospeso”, come suggerisce il titolo, che tutti abbiamo vissuto: il lockdown.

Assayas lo rielabora: il trauma individuale che ha coinvolto il mondo diventa il perno del suo cinema. Si torna a Il gioco delle coppie, in una danza a quattro in cui le risate amare incontrano il dolore dell’isolamento. Qui però il regista inserisce note autobiografiche. Ragiona sulla sua famiglia, su che cosa ha significato per lui il Covid. Realizza un film intimista, in cui si specchia nei suoi personaggi.

In qualche modo è il riflesso di Petite Maman di Céline Sciamma, dove la “prigionia” era l’immagine di un dialogo tra epoche diverse, di favole generazionali collegate da legami di sangue. Etienne e Paul sono due fratelli, e con le loro compagne trascorrono il lockdown nella casa dove sono cresciuti. Si assiste al racconto sincero di una quotidianità che ci appartiene, scandita da battute al vetriolo e da una sceneggiatura brillante.

Si sorride a denti stretti, la malinconia è il punto di partenza per un nuovo inizio, dove riscoprire sé stessi. Assayas mescola l’arte alla vita di tutti i giorni, si muove tra dipinti del passato, suggestioni del presente. Evoca film muti, omaggia Tarantino, e provoca su progetti ai confini della realtà, in cui gli piacerebbe dirigere Kristen Stewart nei panni di una suora portoghese.

Ma Hors du temps è soprattutto una storia di fantasmi, come Sils Maria e Personal Shopper. La voce fuoricampo si sofferma sulle camere vuote di una villa dove si poteva essere spensierati, in cui le giornate con il padre si alternavano a quelle di attesa della madre a Parigi. Il flusso di coscienza si alterna ai battibecchi più futili, sempre taglienti e colti. Con le mascherine, i timori, e le sedute virtuali con lo psicologo in mezzo agli alberi.

La soluzione è solo una: aspettare. Facendo progetti, immaginando il futuro, invocando una parola che puntuale viene pronunciata verso il finale: “normalità”. Questo è l’inno di Assayas, che qui recupera il suo spirito sofisticato per dare speranza a un’umanità fragile, sempre sull’orlo di una crisi di nervi, ma pronta a riscoprire la bellezza in piccoli gesti forse dimenticati.