Scritto, fotografato, musicato, montato e diretto dall’australiano Ivan Sen, Goldstone arriva nelle nostre sale a tre anni dall’uscita in Australia e dalla presentazione al festival di Toronto nel 2016: meglio tardi che mai.

Aderente al genere (crime thriller) ma fuggiasco per indole (inquadrature estatiche, plongée financo spirituali, prodromi di trascendenza), inquadra il detective federale di origini aborigene Jay Swan (l’attore feticcio di Sen Aaron Pedersen) inviato a Goldstone, una città mineraria nell’outback aussie, per indagare sulla scomparsa di una ragazza asiatica. La missione non è semplice, i villici non l’accettano: né la sindaca Maureen (Jacki Weaver), né il direttore della miniera Furnace Creek, e fin qui, ma nemmeno un più giovane collega, il poliziotto Josh Waters (Alex Russell), che poco tollera quel maverick ubriacone.

Eppure, le geometrie saranno variabili, l’intesa affiora, il malaffare contrasta, la speculazione impera, delle prostitute asiatiche non saranno le sole da affrancare: Jay deve ritrovare per primo se stesso, chi è, da dove viene, ossia la storia del suo popolo, affidata ai retaggi rupestri che scompaiono e alla bottiglia che nulla sana.

No, la cornice thriller è davvero sbilenca, il crime senza soluzione, i vinti solo alcuni i vincitori forse nessuno: Goldstone sa che cos’è possibile, e che cosa no, che poi è la vita per come la conosciamo.

Può esserci redenzione ma nella fuga, rivalsa però parziale, salvezza se precaria, nichilismo labile: il climax non è il suo forte, la tensione pure, Goldstone non sarà una miniera d’oro, ma qualche pepita, almeno qualche pagliuzza la fa brillare: Pedersen è un Colin Farrell che ce l’ha fatta, Sen un tuttofare – nota di merito per le musiche – che ha perizia action ed empatia umanista. Nel deserto, o quasi, estivo cinematografico, un’oasi.