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Fino alle montagne @OfficineUbu
Sempre più spesso sullo schermo vengono raccontati fenomeni legati alla gentrificazione. Si assiste agli spostamenti dalla provincia alla città, dalla periferia al centro e viceversa. Ma il filone più diffuso è di sicuro quello vicino alla natura. Un impiegato lascia tutto per trasferirsi in un ambiente bucolico, un uomo d’affari abbandona il business per immergersi in un ecosistema da favola. Il ritorno alla pace campestre è ormai un fenomeno condiviso, al cinema e non solo.
Nel 2017 era stato il caso di Petit Paysan di Hubert Charuel (un successo in Francia), che si concentrava su un allevatore stritolato dalla professione e dal sistema. Era la morte del sogno, con sguardo disincantato. Di sicuro lo spirito crepuscolare lo rendeva più interessante di Fino alle montagne di Sophie Deraspe, adesso nelle sale.
Tratto da un romanzo semiautobiografico, segue le peripezie di un giovane pubblicitario canadese che rifiuta il logorio della vita moderna, si licenzia con una mail piccata, e si trasferisce in Provenza. Vuole diventare un pastore. Nel chiedere i permessi, si invaghisce della ragazza che lavora all’ufficio amministrazione. Nasce una love story, mentre il protagonista deve confrontarsi con le difficoltà della sua scelta. Rispetto a Petit Paysan, la critica sociale è meno marcata.
In Fino alle montagne l’evoluzione negativa della pastorizia è solo accennata. La spinta del governo verso un’eccessiva burocrazia, una legislazione che allontana invece di proteggere, è solo accennata. Qui il focus è più intimista, e tende alla fiaba agrodolce. La ricerca di sé stessi passa attraverso le sveglie all’alba, le malattie degli animali, gli attacchi dei lupi. Con un sentimento che fiorisce in modi più o meno probabili.
Per chi ama le alte vette, era di sicuro più riuscito Le otto montagne (anche se le riprese autoriali in 4:3 non rendevano giustizia ai paesaggi). In quel caso si lavorava sui contrasti, sull’amicizia. Oppure Mektoub, My Love: Canto uno di Abdellatif Kechiche (che forse non avrà mai un altro capitolo dopo Intermezzo), in cui la tensione verso la Terra scaturiva dai corpi, dal desiderio. Erano film sfidanti, che cercavano una via anche impopolare per soffermarsi su un tema ormai classico.
Invece Fino alle montagne si muove su sentieri già battuti, osando pochissimo. Utilizza l’espediente della storia vera, però aggiunge quasi nulla a quello che già conosciamo. A essere vincente è la volontà di evadere, l’escapismo, un elemento sempre più attuale su cui è necessario riflettere. Gli scritti di Thoreau (Walden ovvero Vita nei boschi ma anche Disobbedienza civile) sono sempre più attuali. E lo spirito di Thoreau continua a vivere. Un esempio estremo è l’ormai cult Into The Wild – Nelle terre selvagge (tratto dal bel romanzo di Jon Krakauer), diretto da Sean Penn. Ma anche La pantera delle nevi e A passo d’uomo. Deraspe con Fino alle montagne realizza un film poco ambizioso, ma comunque sincero. Incarna un’ossessione che sfocia nella fantasia, reale e impossibile allo stesso tempo. E ammicca a un significato più alto: cercare i pastori giusti in un mondo abitato da pecore.