Gli anni Cinquanta di Sebastiano Mauri hanno tinte accese, che proiettano lo spettatore in un’atmosfera surreale, volutamente sopra le righe. La tipica casetta americana sembra frutto di un’allucinazione in stile Alice nel paese delle meraviglie: è vero che nel giardino sventola la bandiera a stelle e strisce, ma già i colori delle pareti fanno a pugni con l’arredamento, e da un momento all’altro potrebbe comparire uno Stregatto alla porta.

L’acqua e menta viene servita in damigiane, e il cagnolino di turno è un pupazzo dotato di vita propria, che sa addirittura parlare. Ma il pezzo forte è la sua “padrona”. Filippo Timi travestito da donna, interpreta la signora Fairytale (Favola, come recita il titolo), che da un giorno all’altro scopre di avere qualcosa di troppo in mezzo alle gambe. Si scatena la passione verso una sua amica, e il film prende caratteri queer, con una fuga d’amore che farebbe impallidire il John Waters di Polyester e la sua compianta musa Divine.

 

Favola esagera con i toni, sempre eccessivi, e trova un suo perché solo nel paradosso che mette in scena. Il regista gioca con gli sguardi, con le apparenze. All’inizio tutto deve sembrare felicemente normale: “la protagonista” è un’ottima casalinga, una moglie devota, e a suo modo soddisfatta del suo ruolo. È il simbolo di una società che vive secondo i modelli del perbenismo più inoffensivo. Poi qualcosa mette in crisi questo piccolo paradiso. Il marito la tormenta, sua madre non sa capirla, e sul più bello arriva la “sorpresa”: una mascolinità inaspettata (che per il pubblico non è mai stata un mistero), che travolge FairyTaile con la forza dei sensi alla rovescia.

Naturalmente le perfette geometrie di Todd Haynes e dello splendido Carol sono lontane. Qui le due “amanti” saltellano per il soggiorno in maniera un po’ insensata, prima che una dissolvenza in rosso lasci immaginare il seguito. La macchina da presa non riprende lo “scandalo” e le due si giurano fedeltà eterna, proprio come in una Favola dove è meglio non prendersi troppo sul serio.

Il film segue un’impostazione teatrale (tratta dalla pièce campione d'incassi sempre con Timi protagonista), con il suo palcoscenico immaginario nel salotto. I personaggi entrano ed escono di scena dalla porta principale, e i grattacieli si vedono (posticci) solo dalla finestra. Non si abbandonano mai le quattro mura, dove si avvicendano uomini di tutti i tipi, dall'idraulico all'insegnante di mambo. Il marito si vede solo verso la fine, e a trionfare restano sempre le donne, con le loro smancerie artificiose e una fin troppo calcata femminilità.

A divertire è Filippo Timi, che non ha paura di fare il verso alla gloriosa Mrs. Doubtfire di Robin Williams. Non possono mancare anche gli alieni, che un’istrionica signora in età indica come la causa di tutti i guai. L’espediente non è dei più originali, ma se ci si abbandona al gioco, lo spettacolo può anche funzionare.