Denis Villeneuve è tornato, e con lui Dune – Parte Due, a maggior gloria della saga di Paul Atreides, che stavolta si becca una cinquina di nomi alternativi. A incarnarlo, sulla scorta del bestseller di Frank Herbert, è sempre Timothée Chalamet, e lo fa assai bene, e plauso meritano, più degli altri, Zendaya con gli occhi blu di Chani e Javier Bardem quale Stilgar.

Abbiamo aspettato, che prima non si sapeva se Warner Bros. avrebbe avallato il sequel, poi lo sciopero a Hollywood, ma ne è valsa la pena: Parte Due rincara la dose spettacolare dell’originale, espandendo mondi e magagne e, malgrado un’accelerazione brusca di eventi, segreti e bugie a catalizzare la battaglia finale, prendendosi il tempo che serve perché questo action sci-fi non sia come gli omologhi selle & strisce, ma possa ascriversi una supremazia culturale, e segnatamente – la cifra della fantascienza di Villeneuve – umanista.

Per farla breve, ritroviamo Paul, fresco orfano di padre, con la madre incinta Jessica, una mistica Bene Gesserit, tra le sterminate sabbie del pianeta Arrakis – scopriremo, agli albori si appellava Dune – e alle prese con l’eterna lotta tra Bene e Male, il primo appannaggio dei nativi Fremen, tra cui Chani e Stilgar, il secondo incarnato dagli Harkonnens, che dragano il deserto per incorporare le preziose e potenti spezie.

Nel novero il Barone Vladimir Harkonnen (Stellan Skarsgård), Rabban (Dave Bautista) e la Reverenda Madre Mohiam (Charlotte Rampling), le nuove entrate sono lo psicopatico nipote del Barone Feyd-Rautha (Austin Butler, irriconoscibile), l’Imperatore Shaddam IV (Christopher Walken) e la di lei figlia Principessa Irulan Corrino (Florence Pugh) e l’intrigante Margot Fenring (Léa Seydoux): tutti concorrono a una sorta di Game of Thrones, che però – e ci sembra la nota più saliente, pardon speziata di codesta Parte Due – guarda prepotentemente a sud-est, e non solo per il deserto ritrovato tra Giordania e Abu Dhabi. Spira un’aria di Jihad, complice Stilgar e i Fremen, e – anche qui – non solo per come siano agghindati: è come se Mad Max trovasse l’Isis, Arrakis il califfato, almeno esteticamente. Perché, ideologicamente no? Fronte Fremen, Paul è il profeta; fronte Atreides e, ehm, Harkonnen, Paul è, potrebbe essere, l’imperatore, ma non – il cuore ha delle ragioni che la ragion di Stato non conosce – di cuori.

Tra i due canti, prevale il primo, con Chani e Stilgar che elevano a potenza Paul, catalizzandone un futuro prossimo con meno amici e più proseliti: e l’amore? Canaglissima questione, cui Villeneuve risponde in sordina, meglio, a fuoco lento, chiedendo agli occhi belli di Zendaya di recepire il dolore e vieppiù la drammaturgia: se son rose fioriranno, ok, ma per ora meglio che son spine e pungeranno – speriamo – il terzo capitolo.

Parte Due guarda all’Islam ma non molla il messianesimo, giocando a specchio capovolto, e ha l’ardire, e un tot di ardore, per palesarsi, in sedicesimi, come quarta religione del libro, s’intende quello di Herbert: c’è del capzioso, si capisce, ma anche del fascinoso, che è guerra di mondi e Atreides il suo profeta.

Agli Oscar del 2022 fu il più premiato con sei statuette “tecniche”, e il bis starebbe perfino stretto: regia assertiva e evocativa, Chalamet e i non protagonisti Bardem e Zendaya sugli scudi, e i vermi cavalcati così epicamente da schiantare le bighe di Ben Hur. Già, Parte Due è parte per il tutto.