Potere e vendetta. Amore e morte. Roma e Dubai. Revenge movie e thriller. Apparenza e disvelamento. Occidente e Oriente. Anna e Luna. Scorre su tanti (troppi) doppi binari l’opera di Valerio Esposito.

Film dalle premesse ambiziose (scrittura corale, budget considerevole, cast di grido, location da cartolina, terrazze, abiti e macchine di lusso), gravita intorno a un’unica doppia anima, come da titolo (che annacqua l’originario Gold Diggers, meno ortodosso, ma forse più ficcante).

Anna (Marianna Fontana) e Luna (Angela Fontana). Inquiete, ambiziose, vendicative. Sorelle sanguinarie e inseparabili. La prima, artista instabile, l’altra giovane donna d’affari. Da bambine hanno ucciso e dato alle fiamme il pedofilo che le violentava. Da adulte vogliono prendersi “il controllo” delle vite degli uomini. Tradotto: fama, soldi e potere. Entrambe avvicinano, allora, un altro maschio, adulto e potente, capace di schiudere loro le porte del successo. Michael Tedeschi (Danny Glover), principe dei critici d’arte della Capitale per la creativa, il Mentore (F. Murray Abrahm, altro Premio Oscar) per l’altra: un finanziere che affida ad Anna una complicata partita di terreni in Oriente, dove cavalca e spadroneggia il bel tenebroso Omar (Marco Bocci).

Guerra dei sessi e dei continenti, dunque. Con Shining (molto) sullo sfondo, riprovando la formula di Indivisibili, Esposito mette il film in mano alle sorelle Fontana per arabescare un fastoso revenge movie (poi anche incrociato) al femminile, sfogliando una falotica margherita di droni, pianisquenza e primi piani.

Il già involuto telaio narrativo, però, è poggiato maldestramente su due ambienti (arte e finanza) tanto approssimati quanto stereotipati da un secolo abbondante di cinema. Proprio la sceneggiatura a dieci mani (Cipullo, Domenidò, lo stesso Esposito, Ghetti, Pagnacco), imbocca con faciloneria gli snodi narrativi più scombiccherati, senza parlare della fumosità dei dialoghi che sguazzano giulivi nel retorico e nel sentenzioso, opacizzando le peculiarità dei personaggi, tutte figurine monocorde al limite (o forse oltre) lo stereotipo.

Far cantare tutta la bocca di fuoco produttiva (la nostra Camaleo con l’orientale Marvel), insomma, non basta: non solo la parata di star – oltre i due premi Oscar, recitano anche Paz Vega e il, nel frattempo, compianto Julian Sands – , ma c’è anche una sfilza di location da cartolina, invero più sceniche che narrative: Colosseo, Pantheon e ninfeo di Villa Giulia in notturna di qua, deserti grattacieli, terrazze e superstrade assolate di là.

A voler proprio continuare a far cantare la frusta, si potrebbe concludere che l’unica congiura in atto è quella preparata per lo spettatore, e cerchiare in rosso il mezzo disastro di montaggio nel climax, ma non saremo così cinici. Ci limiteremo a segnalare che perfino il capovolgimento delle intenzioni iniziali sul gong finale, riallineando potere e posizioni sociali, non rattoppa le scuciture narrative, anzi le dilata, senza rimedio.  

L’impressione è di aver assistito ad un’autocompiaciuta, boriosa operazione allestita per ragioni più produttive che artistiche, più promozionali che narrative, più divistiche che drammaturgiche. Senza che queste Double souls trovino mai una sintesi.