Senza veli né censure. Clandestino e metropolitano. Ecco il gemello “cattivo” dell'Iran ufficiale portato a galla dalla pellicola di Hossein Keshavarz. Che ha tanti meriti, uno fra tutti il coraggio. Sei giovani vite si intrecciano sullo sfondo di Teheran, a ridosso delle elezioni politiche del 2009. Sei personaggi in cerca d'identità: una convinta femminista inciampa in una relazione extraconiugale con il marito della cugina, un'aspirante cantante pop sfida le leggi che vietano ad una donna di esibirsi, un gay convinto accetta un matrimonio combinato e di facciata, una coppia di amanti cerca disperatamente un po' d'intimità ed un ragazzo con la madre in fin di vita si oppone al fanatismo religioso della famiglia. Siamo nel cuore del vero Iran, quello offuscato dal sistema mediatico: la città al posto delle campagne, giovani impegnati ed alternativi, con famiglie medio-borghesi alle spalle, invece di bambini e pastori che vivono in capanne senza luce.
Girato senza permessi né visti di censura, proprio per far emergere quel mondo sommerso e contraddittorio, in Dog Sweat la clandestinità e la fugacità del momento divengono marchio di stile. Inquadrature mobili e nervose raccontano fermento ed energia, restituendo il senso della precarietà delle cose. La macchina a mano è sovrana non solo nelle scene in esterni, ma anche in quelle in interni, che hanno il calore e l'atmosfera di un nido. Là fuori c'è un mondo che scorre senza compromessi, dal quale i protagonisti cercano di emergere. Lottando, ognuno a proprio modo, contro il pregiudizio e le falsità, con quel “sudore da cani” del titolo e il divertimento per arma: infallibile contro ogni genere di oppressione. Ed è proprio la comicità a caratterizzare il tono registico, che sceglie i giusti tempi narrativi e affronta con leggerezza anche le situazioni più drammatiche. Immediato ed icasticamente vero, realizzato senza piani di lavorazione in situazioni pericolose e difficili, Dog Sweat non lascia dubbi: il nuovo cinema vérité viene dall'Iran.