Se l’on the road è il genere che lavora sul concetto di spostamento – fisico, morale, emozionale, sentimentale, mentale – in una progressione interiore che s’innesca su quella narrativa, per Radu Jude è l’espediente di uno spaesamento.

Non siamo al capovolgimento del falso movimento, che replica nondimeno un’altra topografia classica, quella dello stile, ma su una duplice insensata frenesia, psichica e motoria: un agitarsi nella dissociazione.

Il nastro del film si srotola-perde la rotta-si attorciglia, fluido e ingarbugliato. La macchina è quella da presa. La strada tracciata dal suo avanzamento poderoso: rotta senza destinazione, retta sul piano rappresentazionale del possibile.

Quale intenzione presiede al film? È deducibile dalla storia, dalla sua messa in forma discorsiva? È in parte connessa alla tracotanza del dispositivo, che appare però il motore più che il pilota dell’operazione? 

Probabilmente Nu aștepta prea mult de la sfârșitul lumii (che d’ora in poi chiameremo Do Not Expect Too Much From the End of the World) non è un film che parla di né uno che parla a. È la coscienza di Radu Jude che parla di film, quindi non necessariamente di cinema, attraverso “un film”.

Con i suoi coriacei, improbabili corifei, capitanati da Angela, figura trinitaria, produttrice esecutiva di un documentario finto educational, punk citazionista e colta e tik toker con avatar nazi. Come Caronte in cerca di passeggeri per l’Altrove, Angela gira da mane a sera con la sua auto in cerca di vittime di incidenti che non hanno seguito le norme di sicurezza, per portarli nell’Altrove televisivo.

Su questo macro segmento narrativo, elegante nel suo bianco e nero, irresistibilmente sconcio e deviato, detonato a forza di peti e raffiche di amenità verbali, s’innesta una porzione di immaginario a parte, Angela merge mai departe di Lucian Bratu, un film del 1981 sulle avventure sentimentali di un tassista e di una donna.

Non è un’interferenza, non c’è intervallo, manca il cut.
Sono come due facce reversibili di Do Not Expect Too Much From the End of the World, perciò sì: hanno un legame. Ma né si parlano né si guardano. È già multiverso. 

Allora è possibile scivolare tra una parodia di Goethe, il "suicidio" di Godard, i versetti satanici e Il declino dell'occidente di Spengler, e trovare persino un set/videogioco di Uwe Boll. Fino al quasi fermo immagine finale, quaranta minuti di camera fissa e frontale (Forbidden Planet si chiama questo blocco) che è altro osceno in scena, un altro fondale di realtà costituito per immagini, in questo buffo catalogo della posterità e delle sue mille depravazioni iconico-culturali.

La Bucarest di ieri e di oggi, l’esca del politico, il groviglio temporale, la videocrazia, il totalitarismo social, il gioco libero, il giogo godardiano: possiamo trovare di tutto. Ma senza esagerare.

Radu Jude ha fatto l'ennesimo film libero, che non presuppone ma auspica uno spettatore di pari valore. La radicalità è però altra cosa e Jude non la contempla avverandosi semmai il suo cinema in una prassi della libertà e dell’ironia contro tutti i bersagli. In primis contro sè stessa.

Nel riderci su finisce per dirci qualcosa. Ma è poi così importante?
Non aspettiamoci troppo da questa fine del mondo. È quella che è.
Aspettiamoci semmai molto altro ancora da Jude.
Il regista, lui sì, è sulla strada per diventare maestro.