Il Delta del Po secondo Michele Vannucci: un reticolato d’acqua e fango, di pesci e fenicotteri, di nebbia e alberi, di pescatori e bracconieri. Tutti, italiani e immigrati, cercano sostentamento tra le sue acque acquitrinose. Qui Osso (Luigi Lo Cascio), capo di un’associazione ambientalista anti-retate insegue i “pirati del Po”, pescatori in fuga dal Danubio trapiantati in Emilia. Tra loro, il nerboruto Elia (Alessandro Borghi), emiliano d’origine, rumeno d’adozione, figliol prodigo tornato sulle rive del fiume. A forza di scariche elettriche, gonfia clandestinamente le reti per la famiglia e il ristoratore del battello sul fiume, ritrovo della stessa comunità emiliana che vuole lo guerra con gli ‘invasori’ rumeni. Ma Osso il temporeggiatore, confida (invano) nei carabinieri per sabotarla, per la rabbia di Nani, la sorellina dall’anima barricadiera. Elia, così, ne approfitta per sfilargli Anna, di cui è ancora innamorato, intestandosi il battito emotivo e le curve narrative di una storia che, al primo delitto, si eleva in una spirale sanguinolenta di rabbia e vendetta.

Scomparso lo Stato, così, diventato impossibile il dialogo tra culture diverse, arbitro dei destini si erge il Po, serpentesco e inconoscibile, almanaccato tra il grigio e il verde marino dalla fotografia desaturata di Matteo Vieille con un certo (apprezzabile) compiacimento paesaggistico. Un altro-mondo totalizzante, dunque, che risucchia o espelle i suoi figli erranti, senza scampo.

Il Delta di Vannucci (già in concorso a Locarno 2022) è un cuore di tenebra cupo e primordiale, fangoso ed esplosivo, labirintico e sanguinolento. L’osservazione del reale, già cifra stilistica de Il più grande sogno (sempre Borghi protagonista), qui rimane come ordito per cucire un neo-western “fluviale” (regista dixit) sulle palafitte scricchiolanti di una natura inconoscibile e selvaggia. Dal genere, infatti, il regista recupera il corollario di passioni elementari: amore, odio, vendetta. Argilla narrativa che forgia le sfumature e le ragioni dei due duellanti. Borghi rispolvera i panni del villain ingrugnito e luciferino con una recitazione più corporale che verbale, tra un primissimo piano (leoniano) e una angosciosa camera a spalla. Lo Cascio, invece, incarna un personaggio passatista di sapore scespiriano costretto, oltre l’istinto di conservazione, a una parabola discendente (simil The Bad Guy) senza ritorno: dalla legge di Stato alle legge del taglione. Dal diritto al fucile. 

Spigliatezza e capacità di slargare i confini del nostro immaginario cinematografico (parole d’ordine in casa Groenlandia, qui in produzione con Kino e Rai Cinema), unite a una messinscena doviziosa a braccetto con le immagini d’archivio. Tra fiction e documentazione, tra proiettili e batticuori, tra piani sequenza intensivi e dronate stemperanti, Delta, con un budget non faraonico, riesce a tenere insieme narratività del reale, denuncia sociale, radiografia ambientalista del paesaggio e antropologia di una comunità ancora ostile e xenofoba.

Tutto molto bene, tutto soppesato e ponderato, finché, scollinata l’ora, la scrittura (lo stesso regista con Massimo Guadioso, Anita Otto e Fabio Natale) si appesantisce, perde ritmo, sfuma i personaggi, scantona dietro un commento musicale (a tratti) esondante, svolazza a lungo intorno al bersaglio delle scene prima di colpirlo. Scaltramente, però, la coppia Borghi-Lo Cascio riacciuffa la storia, la tira fuori dalle secche giusto in tempo per condurla verso un finale istintivo e selvaggio. Come tutto il film.