Non è facile fare un film. Ancor più arduo è riuscire a fare film che funzionino. Farne di belli, poi, certe volte è addirittura miracoloso.

Walter Veltroni, lo sappiamo, di film belli ne ha visti moltissimi. E per il suo esordio da regista con un lungometraggio di finzione (dopo 4 documentari e 3 serie tv sempre declinate sul reale) non fa mistero di ispirarsi ai grandi maestri del nostro cinema (e non solo), per poi provare ad omaggiarli.

Scrive (insieme a Doriana Leondeff) e dirige C’è tempo (l’omaggio qui è a Fossati, non all’omonimo libro di Andrea Scanzi…), “la storia di un viaggio di due persone sole, legate dal filo di un Dna ma separate dalle condizioni sociali e dal tempo in cui sono nate e cresciute”.

Le due persone sole sono Stefano (Fresi), quarantenne precario che osserva gli arcobaleni per mestiere e vive in un paesino di montagna, e Giovanni (Fuoco), tredicenne molto ricco che di punto in bianco si ritrova orfano. Scopriranno l’esistenza reciproca alla morte del padre, che Stefano non aveva mai conosciuto e che, in “eredità”, gli lascia il tutorato (lautamente remunerato) di questo fratellastro sconosciuto.

Adulto e immaturo il primo, bambino cresciuto troppo in fretta il secondo, diversi per antonomasia, impareranno a conoscersi (e a volersi bene) nel viaggio che da Roma li dovrebbe condurre a Viganella (piccolo comune piemontese che dal 2016 forma, con la limitrofa Seppiana, il nuovo Borgomezzavalle e che nel 2006 fece parlare di sé grazie all’installazione di un enorme specchio in grado di rimbalzare la luce del sole sul paesino altrimenti oscurato dalle montagne circostanti durante i mesi invernali).

Ma il viaggio, si sa, assume di senso solamente nel momento in cui la destinazione reale si allontana sempre più. E l’incontro con la cantante Simona (Molinari), in tour con sua figlia, segnerà la definitiva svolta nel rapporto tra i due protagonisti.

 

Film che funzionano. E film belli. Dai riferimenti continui a I 400 colpi (con tanto di poster in cameretta, vicino al gagliardetto della Juve…), con Antoine Doinel nume tutelare di un 13enne ben educato e troppo impostato, fino al Novecento di Bertolucci, con tanto di albergo a Parma dove fu girato Prima della rivoluzione, passando per improbabili serate in meravigliosi casali di campagna dove ex fidanzate si sono riscoperte lesbiche e dove casualmente in tv passano vecchie interviste con Scola e Mastroianni, Veltroni riempie il suo film di “grate citazioni”, anche letterarie (modelli di riferimento che però finiscono per gravare sul resto), si regala il cammeo nel prefinale del vero Jean-Pierre Léaud, non si preoccupa di infarcire (con troppi) “buoni sentimenti” il tutto, ma non sfugge al ridicolo involontario che caratterizza sin troppe situazioni del racconto.

C’è troppo di ogni cosa, dall’esagerata caratterizzazione del bambino coprotagonista alla stucchevolezza di continue didascalie che appesantiscono (a parole) immagini mai lasciate davvero libere di agire, passando per gli eccessivamente abusati luoghi comuni sulla rivalità calcistica tra juventini e romanisti (“perché il goal di Turone era regolare”), tra romanisti e laziali (con Max Tortora carabiniere e il suo collega “Chinaglio”…), e scelte francamente incomprensibili come la giornalista sportiva Anna Billò (indubbiamente bravissima nel suo lavoro) chiamata ad interpretare – seppur in una sola scena – il giudice che sbrigherà la pratica per l’affido del ragazzino a Stefano.

Per carità, l’impianto “favolistico” del film dovrebbe aiutare nell’accettazione di una sospensione dal vero che, però, si fa troppo ardua nel momento in cui non si riesce a scorgere neanche un momento, una situazione, in cui crediamo davvero a quello che stiamo vedendo/ascoltando. Perché anche nelle favole, si sa, non c’è cosa peggiore dell’inverosimiglianza.

Non è facile fare un film. Ma comunque c’è sempre tempo.