Annunciato al Festival di Cannes 2005 come il film più sulfureo, Batalla en el cielo di Carlos Reygadas in effetti ha lasciato il segno. Se il compito di un cineasta è quello di risvegliare lo spettatore, il regista messicano lo ha fatto. Anche troppo. Alla fine della proiezione, come solo avviene per le opere che fanno discutere, fischi e applausi. Il conflitto che divide gli spettatori è dello stesso segno di quello che infiamma l'animo di Marcos, il protagonista del film, combattuto dalla scelta fra le ragioni del corpo e quelle dello spirito. Marcos è l'attendente di un generale e intrattiene una relazione con la figlia del suo datore di lavoro. La ragazza, benestante, si prostituisce per piacere. L'uomo, di bassa estrazione sociale, ha invece rapito un bambino con la moglie per ottenerne un riscatto. Ma il bambino è morto. L'uomo è allora posto a un bivio cruciale della sua esistenza: sprofondare definitivamente nel male o redimersi. E Marcos, che sente la pesantezza del corpo, aspira alla trascendenza. Esattamente come la gente del suo Paese, sottoposta a un regime opprimente di rituali sociali, economici e culturali, E alla fine compie il più cruciale dei gesti, la liberazione dalle pastoie del corpo, dalle sue esigenze, che vanno al di là della coscienza, della ragione, dell'etica. Con le pulsioni, con la materia incandescente dei sensi, Reygadas intrattiene un rapporto freddo, come se fosse qualcosa che esiste ma a cui si è già detto addio. La sua visione, talvolta provocatoria, è segno di un giudizio e di una pietà: giudizio verso il sistema, pietà per gli esseri umani. Denso di scene esplicitamente invase dal desiderio della carne, in realtà il film tiene nei loro confronti una distanza non compiacente, facendo scivolare lo spettatore verso il misticismo di un amore che non si lascia annientare, neanche dal più doloroso dei mali.