C’è un momento in cui Back to Black promette un guizzo: la lunga sequenza del primo incontro tra Amy Winehouse e il futuro marito Blake Fielder-Civil. C’è tutto, a partire da uno spazio, un pub di un sobborgo londinese, che racconta tante cose. È in un locale del genere che la cantautrice in erba iniziò a fare i primi concerti ed è proprio lì, da un juke box nella sala del biliardo, che riecheggia il suo primo album (Frank), con la voce registrata che si sovrappone a quella live.

Ma il pub è anche luogo di perdizione – o un rifugio per annullarsi, a seconda dei punti di vista – per una ragazza fragile che beve troppo (lo capisce subito la nonna quando, nei primi minuti del film, con ferma nonchalance le toglie di mano una bottiglia di vino), che proprio in quella sequenza tracanna un assurdo cocktail a base di whiskey e liquore alla banana. Ed è così che quel pub si configura come set ideale per mettere in scena il colpo di fulmine con questo ragazzo evidentemente instabile: tra complimenti reciproci ai tatuaggi (il corpo come mappa emotiva) e sguardi in bilico tra il desiderio e la devastazione, i due prima si riconoscono e poi si conoscono, passano dal banco al biliardo, si sfiorano e si provocano, mentre risuona la musica diegetica finché, sorpresa, spunta la fidanzata di Blake.

Back to Black
Back to Black
(L to R) Marisa Abela as Amy Winehouse and Jack O'Connell as Blake Fielder-Civil in director Sam Taylor-Johnson's BACK TO BLACK, a Focus Features release. Credit : Courtesy of Ollie Upton/Focus Features (Courtesy of Ollie Upton/Focus Features)

È una sequenza lunga che, per movimenti e tono, suggerisce l’ipotesi di un musical, lo scollamento dal realismo in favore della stilizzazione, l’emancipazione dalle secche del biopic agiografico per approdare a una rilettura più profonda e complessa dell’icona. È una speranza che muore lì, perché Back to Black segue completamente le ultime regole di un non-genere (il biopic non è un genere: è un contenitore) ormai sul legittimo crinale tra l’effetto santino e l’operazione di marketing: tutta colpa del trionfo mondiale (al box office e agli Oscar) di Bohemian Rhapsody, versione edulcorata e anodina della vita di Freddy Mercury, che ha provocato epigoni analoghi (Respect su Aretha Franklin, Whitney – Una voce diventata leggenda, Bob Marley – One Love) come se la vita di una star musicale non possa prescindere da quel tipo di racconto (nonostante Elvis e Rocketman, in attesa del Bob Dylan secondo James Mangold).

Dalla sua ha Marisa Abela, che non cede alla macchietta e interpreta bene i pezzi di Winehouse, ma non basta se c’è una regia sciatta (Sam Taylor-Johnson), se la rappresentazione della tossicodipendenza è pigra (Jack O'Connell nel ruolo di Blake ricorda il protagonista del mediocre A Million Little Pieces, cioè Aaron Taylor-Johnson, marito della regista), se i comprimari vanno con l’automatico (di norma Lesley Manville, qui nonna dal passato glorioso, è un’attrice gigantesca che salverebbe un disastro: di norma), se l’atteggiamento è quantomeno indulgente (congiunti compresi, lo stesso padre Mitch sostiene di essere stato descritto in modo troppo benevolo), se si resta sulla superficie dei demoni senza andare a fondo.