Fine. È il concetto alla base dell’ultima fatica in casa Marvel-Disney, a cominciare dal titolo stesso: Endgame. Il quarto film dedicato agli Avengers, diretto da Joe e Antony Russo, chiude la Fase 3 del Marvel Cinematic Universe, nonostante vi si includa anche il prossimo Spider-Man: Far from home. Quest’ultimo,  a meno di grosse sorprese non sarà che un amichevole epilogo, un “film post-credit”.

Il cataclismatico scontro di Infinity War doveva essere la fine, e lo sembrava, se è per questo. Ma non ci ha mai creduto nessuno veramente: né il pubblico (accorso in sala, un anno fa, in quantità massive) né gli eroi. Sconfitti, persi, disperati, soffrono proprio perché incapaci di abbandonare la speranza.

Il cast più ridotto dei “Vendicatori originali”, meno compresso sull’altare del montaggio, aiuta i registi a prendersi il proprio tempo, un tempo piuttosto lungo, per raccontare le conseguenze dell’apocalisse.

Forse proprio in virtù di questo il primo terzo di film, in barba a trailer, clip e spot TV, riesce a colpire con un paio di svolte a sorpresa. Ma è anche l’occhio, la visione a risultare nuova, anch’essa alla ricerca disperata di emozioni. Più della media dei precedenti film di supereroi.

Laddove Inifinity War eccelle in spettacolarità, Endgame sviluppa l'introspezione. Non siamo comunque di fronte a un film profondissimo, ma il distacco si nota. E il ritmo lo riflette ubbidientemente. Si è parlato tanto della durata, ai limiti delle tre ore, di questo Avengers. Si supponeva tuttavia che la si spendesse in gran parte sull’epicità, come per un Ritorno del Re di jacksoniana memoria. Invece si passano molti, molti più minuti a ricordare. Ricordare e celebrare.

Endgame è un viaggio, neanche troppo allegorico, attraverso dieci anni di film Marvel. Citazioni, rimandi, persino inquadrature rubate a pellicole precedenti. Pare di assistere a un questionario sulla storia del MCU, sui fumetti, sui supereroi protagonisti. Per gli spettatori e lettori più esperti è un premio, una laurea ad honorem, per i più casuali è un grosso limite. L’ultimo Avengers è un labirinto che rischia di far annegare la struttura in un mare magnum di memoria e nostalgia, a un passo, per l’appunto, dalla fine.

Ma proprio al culmine dello spaesamento, quando si teme che il coraggio e i rischi assunti in cabina di regia finiscano per togliere al film più di quanto gli danno, il conflitto risorge più potente di prima. Il finale è uno spareggio, ciò che ci si sarebbe aspettati dall’inizio. Ma, ormai è chiaro, Infinity War era l’inizio, Endgame è la fine.

Il risultato è un’opera di meta-cinema dichiarato, che trova il suo punto di forza maggiore nel non sacrificarsi completamente alle aspettative comandate dal grande pubblico. Se convincerà quest’ultimo del proprio valore più di quanto fatto dal suo immediato predecessore, tecnicamente superiore ma meno coraggioso (considerati gli standard dell’intrattenimento di massa), costituirà un precedente di cui fare tesoro.

A maggior ragione per il manifesto programmatico, riflesso della celebrazione del passato, che lancia verso il futuro: una Fase 4 di supereroi che, potendo contare sulle proprietà Fox recentemente acquisite (X-Men, Fantastici Quattro), si preannuncia altrettanto ingombrante nell’immaginario culturale collettivo. Un passaggio di testimone fondamentale nei confronti della prossima generazione di cinema, pubblico e valori.

Da un grande potere, d’altronde, derivano grandi responsabilità.