Chiunque si consideri una persona leale ha appurato come questa virtù, eticamente ineccepibile, abbia come effetto un pregevole senso assoluto di autorevolezza e merito, ai propri occhi, difficilmente opinabile. Ma tale attitudine può essere considerata onorevole se utilizzata come attenuante per commettere qualcosa di mostruoso?

Questo è il quesito alla base di Autobiography, opera prima del regista indonesiano Makbul Mubarak, passato nella sezione Orizzonti di Venezia 79 e ora in concorso alla ventiseiesima edizione di Tertio Millennio Film Fest.

Il giovane Rakib, con il padre detenuto in carcere e un fratello emigrato all’estero per lavoro, è l’unico custode di una villa disabitata di proprietà di Purna, ex generale in pensione tornato a casa per la campagna per essere eletto sindaco. Da generazioni i discendenti del ragazzo prestano servizio alla famiglia di Purna, instaurando con quest’ultima un legame di totale devozione. Rakib non fa eccezione ed instaurerà con l’uomo un rapporto assimilabile a quello tra mentore e allievo, sino a trasformarsi in qualcosa di più intimo e complesso. Diventando fidato assistente, novizio braccio destro ed autista, condividerà il tempo con Purna, carpendone le luci e le molte ombre.

Quando un manifesto elettorale verrà deturpato Rakib, senza pensarci, rintraccerà il colpevole dando il via a un crescendo di ingiustificata violenza. Ed è nella relazione ambivalente tra i due che la narrazione si snoda facendo intersecare diverse linee argomentative: la rappresentazione delle dinamiche più oscure della sottomissione al potente ed indagine personale del regista. Autobiography, il cui titolo evoca il genere di riferimento, è infatti il frutto della ricognizione dei ricordi privarti dell’infanzia di Mubarak, trascorsa durante il colpo di coda della sanguinosa dittatura militare abbattutasi per più di trent’anni in Indonesia e vissuta osservando l’operare dello scrupoloso padre funzionario di stato per Suharto, fautore di uno spaventoso genocidio.

La figura dell’ambiguo “candidato” simboleggia perfettamente il vecchio distopico regime. Dal passato bellico, narcisisticamente evidenziato dall’enorme ritratto in divisa che domina la camera da letto, Purna mette in azione un subdolo gioco tra vittima e carnefice dove l’abuso emotivo e di potere divengono predominanti. Lo considera e soprannomina “figlio”, lo coinvolge nelle sue attività lavorative e non, cercando di insinuarsi nella mente del giovane abbandonato, ingenuo e con un esempio paterno inadeguato ed assente.

Rakib, inizialmente affascinato dal prestigio emanato dall’uomo, vive assopito in un mondo di gratitudine e riconoscenza, estremizzando il concetto di lealtà in cieca obbedienza. Fino a quando la brutalità di Purna non emergerà con prepotenza e inquietante freddezza: “Passami il caricabatterie”, chiede con indifferenza dopo aver compiuto un insano gesto.

Una spietatezza evocatrice del trauma storico collettivo tutt'ora irrisolto, ma anche appiglio per comprendere la contemporaneità ancora contaminata da retaggi di un’autorità malata mascherata da finta spinta verso il progresso. Tramite immagine sfocate, poco nitide e con l’assenza di totali di ampio respiro, Mubarack racconta una rivalsa sociale costruendo il senso di straniamento che precede l’attimo in cui anche chi è “spaventosamente normale” può diventare ferocemente malvagio.