Magari “riappropriazione” è un termine un po’ forte, però, ecco, che si tratti di una “rivendicazione” ci sembra fuor di dubbio. D’altronde non deve essere stato simpatico, per il popolo cileno, vedere come un romanzo così identitario, con protagonista il suo poeta più amato e celebre nel mondo, sia diventato un racconto italiano baciato dal successo internazionale.

Parliamo de Il postino di Michael Radford e Massimo Troisi, che nel 1995 fu addirittura candidato a cinque Oscar (vincendone uno per la colonna sonora) e che l’attore napoletano, innamoratosi del libro, volle adattare retrodatando l’azione dal 1969 al 1952 e trasferendo l’azione da un’isola cilena a una italiana. Con Ardente pazienza (traduzione letterale dell’originale Ardiente paciencia), Rodrigo Sepúlveda cerca di rimettere le cose al loro posto e, dopo Tengo Miedo Torero (un altro adattamento letterario, in quel caso del bel romanzo queer di Pedro Lemebel), torna a guardare al passato della sua nazione incrociando sentimenti e politica.

La storia resta quella che conosciamo: in un villaggio di pescatore analfabeti, un giovane sogna di diventare poeta e trova lavoro come postino esclusivo di Pablo Neruda. Quando si innamora della figlia della barista, il ragazzo inizia a corteggiarla, nonostante lei sia fredda e distaccata, e la conquista proprio grazie alla poesia. Nel frattempo, Neruda viene candidato alla presidenza per il Partito Comunista del Cile, ma torna sull’isola quando gli preferiscono Salvador Allende.

Andrew Bargsted e Vivianne Dietz in Ardente pazienza. Cr. Diego Araya Corvalán/Netflix © 2022
Andrew Bargsted e Vivianne Dietz in Ardente pazienza. Cr. Diego Araya Corvalán/Netflix © 2022

Andrew Bargsted e Vivianne Dietz in Ardente pazienza. Cr. Diego Araya Corvalán/Netflix © 2022

Ora, che l’operazione abbia un suo senso nei termini di un riallineamento storico, d’accordo, e che il tutto avvenga sotto l’egida di Netflix amplifica l’eco sovrannazionale dell’intento. Ma, proprio per la sua fortissima capacità di raggiungere un pubblico molto vaso, Ardente pazienza abbassa l’alta reputazione che il cinema cileno si è costruito nell’ultimo decennio, con autori che hanno interrogato il passato per interpretare il presente, esplorandone le zone d’ombra, scandagliandone le contraddizioni, riesumando i cadaveri della nazione.

È un altro tipo di film, quello di Sepúlveda, va bene, che vuole riconciliare e intrattenere senza traumi, ma davvero finisce per emergere come un mediocre controcanto scontornato dalla realtà, una favoletta edulcorata e oleografica cartolina che ammicca al tempo perduto e svincola le storie dei singoli dalla storia collettiva, preferendo una polverosa nostalgia. Paradossalmente il film di Radford e Troisi, con tutti i suoi cliché da esportazione, riusciva ad avere una maggiore consapevolezza politica. E poi Neruda: più che icona monumentale ci sembra figurina da sussidiario e tutto il famoso repertorio di frasi celebri (il discorso sulle metafore, la poesia che non è di chi la scrive) appare più pretenzioso che elegiaco.