Di ritorno nel suo Galles dopo l’esperienza in Indonesia che con i due The Raid ha dato uno scossone al mondo del film di arti marziali, Gareth Evans alza l’asticella delle sue ambizioni e grazie a Netflix realizza Apostolo, il suo film più complesso e forse il migliore.

Protagonista Dan Stevens (la serie tv Legions) nei panni di un uomo che, agli inizi del ‘900, si reca in un oscuro paesino dell’entroterra britannico per trovare sua sorella, rapita da una violentissima setta religiosa. Scritto dallo stesso regista, Apostolo è un cupissimo dramma religioso e spirituale che sconfina con l’horror e il visionario ma che dentro ha un nocciolo allegorico e politico che si presta a molte sfumature e letture.

Tra queste di sicuro c’è la chiusura e l’isolamento paventati dalla Brexit e che ha visto il Galles (dove il film è girato e immaginariamente ambientato) fortemente contrario, ma anche i sentimenti di rabbia e rifiuto della comunità che a quella decisione hanno portato: Evans dipinge un microcosmo fatto di simboli propri opposti a quelli riconosciuti dalle autorità in cui il sovranismo passa dalla paura, dall’oppressione del diverso, dalla creazione di regole e divinità proprie, dall’illusione di poter sfruttare le risorse e le persone secondo canoni imposti dall’alto ma che si fingono popolari.

Evans però ha la saggezza di non rendere il film un mero atto d’accusa contro le formule politiche e patriarcali che regolano i nostri tempi (come un altro sottovalutato film degli ultimi anni, Brimstone di Martin Koolhoven), ma di trovare strategie drammatiche e registiche potenti, di declinare Apostolo come un dramma in cui portare alle estreme conseguenze la tetra spiritualità su cui si fonda facendone uno di quei miti di fondazione distorti e orrifici di cui abbonda la narrativa: la violenza è deflagrante, il ritmo cadenzato cresce inarrestabilmente, gli spazi passano dall’ampio splendore di scogliere e praterie alle fondamenta marce di un paese, stringendosi sempre di più, aumentando il respiro e l’atmosfera cinematografici.

Evans non ha paura né dell’eccesso, che sa riempire di idee visive e spessore discorsivo, né di spiazzare il suo pubblico: il suo cinema ne risulta arricchito.