Chiude per noi con un certo imbarazzo la ventiduesima edizione della Settimana della Critica. Perché Año Uña del ventiseienne Jonas Cuaron (figlio di quell'Alfonso, padre padrino della nuova vulgata hollywoodiana/messicana impegnata ma tanto glamour) è un film che spaccia freschezza di stile e immediatezza di contenuto, quando non è che una programmatica operazione a tavolino per farsi notare. Año Uña è un racconto per immagini fotografiche (tante); decine e decine, commentate da molte voci fuori campo (troppe) che sono poi le voci dei soggetti fotografati. Inoltre c'è pure una netta e inutilmente ardita trasformazione cromatica: dal bianco e nero delle foto della prima mezzora al colore dei rimanenti cinquanta minuti. La storia è quella di un adolescente di una buona borghesia messicana che si ritrova ad ospitare in casa, in mezzo ai familiari, una buona borghese statunitense di vent'anni in viaggio nel centro america. Lui se ne innamora, le sbircia i seni, fantastica una relazione; lei non sembra dell'avviso.
Una scelta stilistica pretestuosa, quella delle foto in successione, che non brilla certo di originalità. Non citiamo pietre miliari del cinema che hanno adottato il sincopato metodo dell'accumulo montato di fotografie. Diciamo solo che in Año Uña il metodo non aggiunge e non significa nulla di più rispetto alla ovvia narrazione dei fatti. Anzi, semmai li artificializza e tenta inutilmente di trasformarli in qualcosa di maggiormente stratificato a livello di senso senza raggiungere una meta precisa. Un po' come in molti, se non in tutti, i film targati Dogma (si pensi a Festen di Vinterberg per esempio). E poi quale riflessione socio-politica sulle frontiere invalicabili Messico/Usa dovrebbe mai soggiacere a questo pastrocchio, come hanno scritto nelle presentazioni ufficiali al film? Dove le avremmo dovute rintracciare? In qualche sparuta battuta da manuale della sceneggiatura? Unica domanda a Cuaron junior, parafrasando con storpiatura Bogdanovich: ma perché papà ti manda solo?