Hanno titoli essenziali, i romanzi di Annie Ernaux. Il posto, Una donna, La vergogna, L’eventoGli anni, per citarne alcuni. È il segno di una scrittura precisa, che non s’imbocca nelle scorciatoie del virtuosismo fine a se stesso ed eleva la testimonianza a misura del mondo. Pochi come lei, nella letteratura contemporanea, possono ambire alla statura del classico e i Nobel l’hanno premiata proprio “per il coraggio e l'acutezza clinica con cui svela le radici, gli allontanamenti e i vincoli collettivi della memoria personale”. E in fondo I miei anni Super8 è tutto in questa motivazione.

Dello stile di Ernaux, questo meraviglioso film firmato da lei stessa insieme al figlio David Ernaux Briot, ha tutto: la forma breve (un’ora, una benedizione) che non ha a che fare con la fretta espositiva o la semplificazione tematica; la restituzione del passato attraverso la lente del presente,; l’urgenza di condividere lo spazio dell’intimità senza impellenze voyeuristiche ma trasfigurando il personale nell’universale. Sa parlare con chi conosce l’opera della scrittrice, sa avvicinarsi a chi non ha mai letto un suo libro. E, cosa forse più importante di tutte, sa emozionare. I miei anni Super8 riprende i filmini familiari girati dai coniugi Ernaux tra il 1972 e il 1981, un vasto archivio composto da immagini silenziose.

Annie Ernaux - I miei anni Super8 © Les Fillms Pelleas
Annie Ernaux - I miei anni Super8 © Les Fillms Pelleas
Annie Ernaux - I miei anni Super8 © Les Fillms Pelleas

E rincorre un’utopia: come ridare voce a quei momenti? È un’impresa titanica e disperata, che però trova un rigore, un’esattezza, una pace proprio grazie alla scrittura. Perché l’unica voce che sentiamo – e che si sostituisce al suono del proiettore – è, appunto, quella di Ernaux. Dove per voce si intende l’elemento fonetico e lo strumento letterario: l’una esiste in funzione dell’altra e non potrebbe essere diversamente (“I corpi parlano da sé” dice, ma è lei stessa l’unica a poter far parlare quei corpi: “Le parole erano necessarie per dare un senso ai frammenti di vita familiare ripresi in modo invisibile nella storia dell’epoca”).

Come ritrovare il tempo perduto? Sembra essere questa, la missione di Ernaux. Che entra nel cuore, e nello spirito, di questa ricognizione, spingendo il commento delle immagini verso la dimensione romanzesca e incaricando il proprio sguardo di accogliere il coinvolgimento della testimone, con il portato nostalgico che implica, e l’apparente distacco della narratrice, con lo statuto autorevole dovuto a una penna blasonata.

I Super8 raccontano un passaggio decisivo della vita familiare, l’infanzia dei figli, e al contempo riescono a trasmettere una fase storica precisa, con i coniugi Ernaux che diventano rappresentanti di una classe sociale, la borghesia di sinistra, alle prese con le conseguenze dei grandi eventi. I viaggi in giro per il mondo costituiscono l’occasione per riflettere sulla passione politica (il Cile di Allende), recuperare un certo “piacere della meraviglia” (l’architettura russa in Unione Sovietica), non rinunciare a malie turistiche (l’esotismo del Marocco), aprirsi all’arcnao (l’Albania all’epoca misteriosa). E il privato si intreccia al pubblico, i progressi dei figli incastonati nelle evoluzioni culturali, l’avvio della carriera letteraria come punto di svolta compreso solo col senno di poi (“Mi sembrava lontana, quasi irreale. Un libro non ti cambia la vita, come si crede o si spera”).

Annie Ernaux - I miei anni Super8 © Les Fillms Pelleas
Annie Ernaux - I miei anni Super8 © Les Fillms Pelleas
Annie Ernaux - I miei anni Super8 © Les Fillms Pelleas

La grandezza del film sta sì nella consapevolezza di ricostruire “una vita di cui avevamo nostalgia”, ma anche – e soprattutto – nel desiderio, struggente e travolgente, di far rivivere chi non c’è più. Gli Ernaux, mamma e figlio, hanno capito uno dei poteri più fondamentali del cinema: la possibilità di convocare i morti, di restituire loro un corpo, di celebrare le anime che continuano a esistere nella nostra memoria. Il loro film non ha solo la funzione di rievocare frammenti e presenze di un lessico familiare svanito (i nonni, Philip Ernaux, sconosciuti) ma anche di consegnare al futuro un consiglio per imparare a convivere con i fantasmi: il rituale della visione silenziosa, condivisa tra persone che si amano e si scambiano ricordi, mentre si aspetta con impazienza febbrile che le ombre affollino lo schermo. “Per ritrovare un po’ di quella luce che illuminava il passato”, dice Ernaux. Per noi è un grandissimo film su ciò che di meglio sa essere il cinema: un conforto.