L’abbiamo già visto? Poco importa. Le virtù di All Day and a Night non stanno nel (che) cosa, ma nel come: c’è una sottile linea rossa, di distacco, sottrazione, sprezzatura, a orlare una trama, black-generazionale, già intessuta da, per dirne alcuni, Prossima fermata Fruitvale Station (Ryan Coogler, 2013), Moonlight e Se la strada potesse parlare (Barry Jenkins, 2016 e 2018), Waves (il bianco Trey Edward Shults, 2019).

Sceneggia, dirige e produce l’afroamericano Joe Robert Cole, le altre due mani oltre a quelle di Coogler al tavolo di scrittura del successo Black Panther, di cui potenzia l’afflato sociale, le rivendicazioni identitarie, per dirla con una vecchia etichetta di vestiario la dimensione fubu (for us by us).

Disponibile sulla piattaforma Netflix, la sua opera seconda sarebbe piaciuta a Émile Zola: naturalismo per ascissa e determinismo per ordinata, la traiettoria di Jahkor Abraham Lincoln (Ashton Sanders, Moonlight), che fa rap ma finisce in carcere – il film si apre così – per duplice omicidio, non conosce scarti né scorciatoie. Gli stessi che non si concede Cole: sarebbe stiloso – si veda la parata notturna – se solo volesse, misericordioso se solo potesse, invece no, nella parabola di figlio e padre J.D. (Jeffrey Wright, Westworld), così lontani così vicini, trova l’ennesima American Crime Story, serie che ha scritto e prodotto, la solita terra bruciata, l’ineluttabile meccanica del dolore.

L’empatia prende campo, senza svenevolezze, perfino con crudeltà: gli amori non salvano, le gang dettano, la prevaricazione impera, la predestinazione aggioga, e Cole mette in fila mascolinità tossica, violenza ciclica, istituzioni, radici e no future.

Il rischio di prenderlo sottogamba c’è, ma non fatevi fregare: All Day and a Night non fa sconti nemmeno a se stesso, Oakland è senza filtro, Jahkor senza rete di protezione, lo spettatore poco onnisciente ma – si vuole – assai competente. Nelle pieghe, c’è grande cinema. E una disperata speranza.