Lione, cerimonia istituzionale. Mentre risuona la Marsigliese, lo sguardo del sindaco appare perso nel vuoto. Prima di Alice e il sindaco, secondo film di Nicolas Pariser, c’è la memoria del cinema.

“Suonate la Marsigliese!” incitava, in Casablanca, Laszlo, l’eroe della Resistenza, per sovrastare le voci dei tedeschi nel locale di Rick. E l’inno nazionale francese, cantato in coro da tutti gli esuli, diventava così patrimonio collettivo in funzione antinazista. Anche in virtù di un tale ricordo è difficile non farsi travolgere dalla Marsigliese.

Eppure il sindaco sembra esserne indifferente, proprio lui che è in predicato di candidarsi alla presidenza della Repubblica. È un momento davvero importante, perché riflette sulla fragilità dei simboli. Può chi vorrebbe incarnare l'unità nazionale apparire distaccato, estraneo, gelido di fronte all’apoteosi della nazione? L’empatia e la modestia sono qualità per un uomo politico?

Il sindaco è Fabrice Luchini, ma Alice e il sindaco non è un altro Luchini-movie. È questo, un filone fiorente, incardinato sul carisma del maturo divo francese: la sua presenza garantisce commedie colte e borghesi pur con sospette leziosità calligrafiche, storie di uomini intellettuali e disincantati in realtà desiderosi di rinascita.

Sarebbe sbagliato ridurre il film di Pariser all’ennesimo esemplare del catalogo, e non solo perché il sempre ottimo Luchini è qui davvero strepitoso per misura e sensibilità. Alice e il sindaco analizza il collasso della sinistra francese – e più nello specifico dei socialisti – attraverso un racconto tutto interno al perimetro progressista.

Nell’epoca in cui la Francia è divisa tra il sovranismo neofascista e il liberismo delle élite, Pariser non si concentra sul conflitto con l’avversario. Sceglie di raccontare lo smarrimento di un partito (un uomo di partito) che non ha alcuna narrazione da proporre all’elettorato.

Per costruirne una, l’entourage del demotivato sindaco arruola Alice (Anaïs Demoustier, per questa limpida prova candidata al Premio César), una giovane filosofa, cervello in fuga tornato in patria per trovare un lavoro decoroso. L’obiettivo è proporre linee, idee, suggestioni per rigenerare la comunicazione di un uomo potente ma che ha il coraggio di ammettere di “aver smesso di pensare venti anni fa”. “Riabituami a pensare”, chiede alla ragazza, che ben presto gli diventa indispensabile. Un po’ troppo, secondo i collaboratori.

Ma ormai la passione del sindaco si è risvegliata. E, sull’onda di quella rinnovata sinistra che crede in un “progressismo limitato alle risorse del pianeta”, ha ritrovato la voglia di combattere (romanticamente) contro la dittatura della finanza e del capitalismo.

Scritto divinamente con un gusto della citazione letteraria che non sfocia mai nel vezzo snob del citazionismo, Alice e il sindaco ha la capacità di parafrasare il presente locale senza restarne intrappolato.

Non è solo per la sua leggibilità oltre i confini transalpini ma anche per la sapienza e la leggerezza con cui Pariser costruisce un’elegante e malinconica commedia morale sulla necessità degli ideali per affrontare la complessità del mondo.

Straordinario il lungo piano sequenza in cui i protagonisti scrivono il discorso per la discesa in campo: dialogo filosofico e duetto musicale, lezione di retorica e saggio di regia. Éric Rohmer è più di un riferimento: uno spirito guida. Come in tutti i racconti romantici, c’è un (doppio) finale struggente. Spiace dirlo ma commedie così, in Italia, non se ne fanno. Premio Label Europa Cinemas alla Quinzaine des Réalisateurs di Cannes del 2019.