"Volete che dica che George W. Bush è un cretino? Va bene è un cretino". Lars Von Trier non usa mezzi termini per confermare il suo anti-americanismo. A parole e con le immagini del suo nuovo film, Manderlay, presentato in concorso al Festival di Cannes. Due anni dopo Dogville, il regista danese è sulla Croisette per presentare il secondo capitolo della trilogia dedicata agli Stati Uniti con la giovane protagonista Bryce Dallas Howard, la figlia di Ron Howard già vista in The Village, Willem Dafoe e Danny Glover. "L'America è un Paese seduto sul mondo - spiega il regista - e solo per questo faccio film su questa nazione. Vengo da un piccolo paese come la Danimarca dove l'influenza degli Stati Uniti è onnipresente. Non ho niente contro gli Usa né come idea, né come spirito, ma piuttosto contro certe idee politiche in generale». Manderlay racconta l'impegno di Grace (con il nuovo volto di Bryce Dallas Howard che ha sostituito Nicole Kidman) contro il razzismo  nella cornice di una pinatagione da cui il film mutua il nome. Quando la vecchia proprietaria (Lauren Bacall) muore, la comunità nera tenuta in catene non sa come gestire la nuova libertà: in suo aiuto accorrerà l'entusiasta Grace, ma il processo di liberazione non sarà indolore. Le accuse rivolte alla pellicola riguardano l'utilizzo massiccio degli stereotipi nella descrzione della realtà dello schiavismo: "L' ho fatto apposta - spiega Von Trier - ma solo per far passare un messaggio in maniera più forte". E sulle ragioni di questo suo secondo attacco cinematografico agli Usa ribadisce: "Il 60% del mio cervello è americano, il 60% della mia vita è americana, insomma sono un americano ma non posso votare, non posso cambiare nulla. L'unica cosa che posso fare è fare film!". Come Dogville, anche Manderlay utilizza una struttura teatrale: "Questa trilogia sugli Stati uniti deve essere teatrale - spiega Von Trier - perché è un paese dove non sono mai stato, un posto che esiste solo nella mia testa".