Nel mirino Titanic sulla vetta degli incassi di sempre, botteghino stratosferico anche all'esordio in Italia, Avatar conferma che James Cameron è il Re del Mondo - definizione della critica Usa - e che il cinema come lo conosciamo (forse) cambierà per sempre. Ma Avatar non uccide né esaurisce il cinema, come lamentato da apocalittici e nostrani "preveggenti": con immagini e suoni, e non parole a vanvera, La prima cosa bella di Paolo Virzì e Io, loro e Lara di Carlo Verdone dicono forte (al botteghino), bene (per esito artistico) e in italiano che, anche alla periferia dell'impero, la settima arte ha ancora tutta la vita davanti
Con 12 milioni e passa di euro in 18 giorni, il film di Don Carlo testimonia che il suo passaggio - ancora da metabolizzare e affinare - dalle maschere che furono al "dramma d'autore" è tanto coraggioso quanto benvisto dal pubblico, mentre di Virzì possiamo solo dire che il titolo è fedele, perché di cose belle ne offre tante.
La prima sono gli attori: tutti in stato di grazia. Mai così brava Micaela Ramazzotti, maman fatale nella Livorno anni '70: complice la ritrovata (ad alti livelli) Stefania Sandrelli, che le succede nel ruolo di Anna anziana, ci fa pensare a Io la conoscevo bene di Pietrangeli, mentre il figlio Valerio Mastandrea (Bruno), burbero, ironico e (fintamente) nichilista, e la figlia (fintamente) ordinaria Claudia Pandolfi (Valeria) gareggiano per intensità e aderenza alla parte.
Ancora, a distinguersi sono il papà Sergio Albelli, il fratello ritrovato Paolo Ruffini e i piccoli Bruno e Valeria (Giacomo Bibbiani e Aurora Frasca), diretti con briglia sciolta e mano ferma da Virzì, per un affresco familiare che dai Settanta a oggi dice molto di come eravamo e come (non) siamo diventati.
Per incipit (il genitore morente), formato (famiglia) e ping-pong temporale vicina a L'uomo nero di Rubini (altro tricolore di qualità), per suggestione prossima a Tutto su mia madre di Almodovar, una Cosa davvero bella che ha le ambizioni del kolossal nostrano - estensione narrativa, cura scenografica e durata, sebbene si potesse tagliare qualcosa.. – e le nervature psicologiche del dramma intimista, sempre baciato dal sorriso e comunque immalinconito dall'ineluttabilità della fine.
Che dire, Avatar non è la fine, ma uno sprone a far bene, a qualsiasi latitudine cinematografica. Qualcuno in Italia l'ha capito: film alla mano.