Il suo nome è Mario Girotti ma per tutti è Terence Hill, protagonista della prima serata di Castiglione Cinema 2020 – RdC incontra, il festival organizzato dalla Fondazione Ente dello Spettacolo. Incalzato dalle domande di Massimo Bernardini (giornalista e conduttore di Tv Talk su Rai 3), il popolare attore si è raccontato al pubblico dell’Arena della Rocca Medievale, in occasione della proiezione di Il mio nome è Thomas, l’ultimo (finora) film che ha diretto e interpretato per il grande schermo.

Una carriera quasi settantennale, quella del grande Terence Hill, iniziata a undici anni: “Un’amica di mia madre mi portò a un provino per Vacanze col gangster. Però non mi andava di girare e cominciai a fingere di essere malato. Dino Risi, il regista, allora mi prese da parte e mi fece: ma lo vuoi fare questo film o no?”.

Lo voleva fare? “La verità è che sul set ho sofferto fino a Il gattopardo. Quando Luchino Visconti mi prese per quel film, decisi di lasciare l’università”.

Sul set dell’adattamento del romanzo di Tomasi di Lampedusa conobbe un giovane collega: “Giuliano Gemma lavorava come pompiere, io facevo la ginnastica artistica. Sul set del Gattopardo ci sfidavamo a chi faceva meglio la verticale! Sedici anni di ginnastica artistica sono stati utili, specialmente nei film con Bud Spencer”.

Terence Hill e Massimo Bernardini - foto di Karen Di Paola

Un incontro fondamentale: “Ma prima sono successe altre cose. Me ne andai per tre anni in Germania a recitare in film tratti da Karl May, diciamo il Salgari tedesco. Ero stanco di fare il giovane amoroso in Italia, volevo cambiare. E in Germania partecipavo a questi film che erano dei western molto locali ma che arrivarono prima di quelli di Sergio Leone…”.

Mario Girotti diventò Terence Hill nel 1967, quando esplose come star del western all’italiana. “Tornai in Italia e fece Little Rita nel Far West, con la Pavone e Lucio Dalla. Mi ero fatto crescere la barba, nessuno mi riconosceva più!”.

Da giovane amoroso a eroe del western, con Bud Spencer: “Un attore si ruppe il piede e mi mandarono in Almeria a sostituirlo in fretta e furia. Il film si chiamava, in origine, Il gatto, il cane, la volpe e il regista Giuseppe Colizzi, quando arrivai sul set, mi presentò quest’omone dicendomi: lui è il cane! Era Carlo Perdersoli. La prima scena era scritta nel destino: una scazzottata”.

È l’inizio di una nuova carriera: con Dio perdona… io no! Hill diventa una star riconosciuta del western e realizza la prima delle diciotto collaborazioni col sodale Bud Spencer, con cui forma una coppia dall’alchimia incredibile. “Non mi sono mai divertito al cinema prima di Trinità” rivela.

Sergio Leone apprezzò Lo chiamavano Trinità… ma era convinto che questo attore carismatico e internazionale valesse più di quelle rocambolesche commedie western: “Voleva fare un film con me e, dopo cinque sceneggiature scartate, scelse una versione dell’Odissea. Alla fine restò solo il nome, Nessuno”.

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L’America scoprì Terence Hill, il successo dei suoi film è mondiale. “Incontrai una signora con una bambina a Piazza di Spagna, all’inizio degli anni Settanta. Mi disse: continui a fare i film che fa così posso portare mia figlia al cinema”. È il seme di un pensiero che sovrintende tutta la carriera dell’attore, votata all’idea di un cinema popolare alla portata di tutti.

“Dino De Laurentiis mi voleva in una specie di Giustiziere della notte. Dovevo fare uno stupratore. La mattina dopo scappai e non mi feci più trovare”.

Nel 1983, il passaggio alla regia: “Mi è capitato recentemente di rivedere pezzi del mio Don Camillo: è un bel film!”. Un decennio dopo, l’ultimo incontro sul grande schermo con Bud Spencer: “Botte di Natale non andò bene, i tempi erano cambiati”.

E nel 2000, mentre in Italia arriva il Grande Fratello, un’altra rivoluzione nella carriera di Terence Hill. “Vivevo un po’ in America a un po’ in Italia e stavo lavorando con Mediaset per una fiction su un prete paracadutista. A un certo punto si tirarono indietro perché la Rai stava lavorando a una serie più o meno simile…”.

Bernardini ricorda che Don Matteo nasce da un’intuizione di Ettore Bernabei, storico dirigente Rai a cui, tra le altre cose, si deve il Padre Brown con Renato Rascel. La nuova serie con il sacerdote investigatore doveva, nelle intenzioni di Bernabei (nel frattempo diventato patron della casa di produzione Lux Vide), ricalcare quel modello e, infatti, i primi nomi vagliati per il ruolo furono Lino Banfi e Giancarlo Magalli. La svolta avviene con il coinvolgimento di Terence Hill che stravolge nome (“Doveva chiamarsi Teodoro: meglio Matteo”), titolo (“L’originale era Il diavolo e l’acqua santa: non mi ci rivedevo”) e personaggio.

Don Matteo, in fondo, è come un cowboy: “Di lui non si sa niente, non ha un passato. Nelle prime stesure c’era un contorno di personaggi familiari come la sorella: eliminammo tutti, di Don Matteo non sappiamo niente. Al posto del cavallo ha la bicicletta, e come Trinità gioca a sfottere gli altri, su tutti Nino Frassica”.

Da uno dei più grandi successi della televisione mondiale, da vent’anni sulla cresta dell’onda, a un nuovo film per il cinema, Il mio nome è Thomas, nel 2018. Un “road movie metafisico” lo chiama Bernardini, in cui la Harley Davidson si incontra con il deserto dei film western. “Il film nasce dai libri di Carlo Caretto, che in America è molto più letto che in Italia. Mi sono entusiasmato per quel linguaggio semplice sulla fede. Ma, intendiamoci, è un film per tutti: c’è anche una scazzottata. Però il mio film vuole soprattutto rispondere a una domanda: che cos’è il desiderio? È la mancanza delle stelle”.