“Io sono come Benjamin Button: sono nato vecchissimo e sto diventando sempre più giovane. Da adolescenti si vivono i primi turbamenti del cuore, io a 14 anni volevo vivere e basta: perciò a 60 ho cominciato a scrivere un diario”.

Così Enrico Vanzina, ospite della prima giornata di Castiglione Cinema – RdC incontra, spiega il significato di Diario diurno, il libro in cui rievoca gli ultimi anni della sua vita, frutto della sua esperienza giornalistica.

“Chiaramente l’allusione è al Diario notturno di Ennio Flaiano – rivela a Valerio Sammarco, critico e giornalista della Rivista del Cinematografo – e io lui l’ho conosciuto bene, era amico di papà (il regista Steno, ndr). Andavamo sempre a casa della più grande sceneggiatrice italiana, Suso Cecchi D’Amico, tutto il cinema italiano si radunava da lei per delle cene in piedi. Una sera confessai ad Age, che con Furio Scarpelli formava la più importante coppia di autori del nostro cinema, di voler fare lo scrittore. Allora lui mi portò da Flaiano che mi guardò e fece alcune battute tipiche del suo carattere: ‘Sono il grande Flaiano, fammi qualche domanda’, mi disse. Io, tutto rosso, gli chiesi: ‘Ennio, a cosa serve scrivere?’. Lui passò al suo lato malinconico e rispose: ‘Serve a sconfiggere la morte’. È così. Io ci penso da allora. Se, fra tanti anni, in un mondo alla Fahrenheit 451, i libri saranno desueti, qualcuno troverà ancora il mio libro, vorrà dire che ho sconfitto la morte”.

“Qualche settimana fa – racconta Vanzina – ho fatto una lunga passeggiata con Carlo Verdone. Ci siamo chiesti cosa abbiamo fatto nella vita. La risposta è che abbiamo pedinato gli italiani con affetto, simpatia, empatia, amore. Diario diurno parla della mia vita ma anche della vita di tutti. Ho messo insieme tutto ciò che è il contrario esatto dell’autobiografia. Un genere terribile: chi scrive di sé lo fa parlando di qualcun altro. L’autobiografia è il regno delle fake news, molti scrivono per vendicarsi di qualcuno. E con la penna puoi uccidere”.

Sull’Italia: “Siamo rimasti il paese degli impicci, come ai tempi di Totò, ma siamo rassegnati. Viviamo un presente continuo. La vita ha senso se la annoti, bisogna vivere pensando che il presente può diventare un ricordo. Solo così possiamo immaginare futuro. Oggi è scomparso il merito, il riconoscimento del sacrificio, è diventato tutto uguale. Siamo nati per essere felici e se non siamo felici in Italia è colpa nostra”.

E sul cinema italiano: “Flaiano sosteneva che, con il tempo, quasi tutti i film drammatici si avviano a diventare comici. Invece il comico resta tale. Se i francesi hanno ripreso la tradizione dal vaudeville, gli inglesi hanno sviluppato l’umorismo nero, gli spagnoli tendono al grottesco e gli americani sanno fare la commedia sofisticata, noi italiani abbiamo la capacità di affrontare un argomento drammatico in maniera lieve. A scuola dovrebbero togliere un po’ di Dante e Manzoni e mettere una commedia all’italiana a settimana. Quei film non erano mai moralisti, avevano rispettato delle ragioni altrui”.

Una filmografia sterminata, quella di Vanzina, con la punta di diamante Sapore di mare: “In quel film l’adorata Virna Lisi diceva: ‘Invecchiare fa schifo’. Ma non è vero: invecchiare è il massimo della libertà, puoi ammettere di aver avuto torto. E poi quando si invecchia arriva il momento meraviglioso del perdono: è il bisogno delle cose belle in un modo di cose brutte”.

Un libro che è un’ode all’amicizia: “Il sentimento del massimo senso di appartenenza. E il più misterioso: dare senza ricevere e viceversa. Non volevo parlare di morti, ma quando è morta la mia amica Mariangela Melato ho cominciato a scrivere di lei. E poi tanti, tantissimi amici sono andati via. Nella costituzione dell’amicizia c’è il dovere di ricordare gli amici”.

Nel 2018 ci lasciava Carlo Vanzina, che con il fratello ha lavorato in sessanta film: “Diceva che nel cinema c’è spesso il lieto fine, nella vita quasi mai. Nel Diario diurno ho tagliato gli otto mesi della malattia di Carlo. È sempre con me, è la presenza più importante nella mia vita. Poco prima di morire si ostinava a fare riunioni. Un giorno, quando ormai sapevamo che c’era poco tempo, dopo un lunghissimo silenzio, si avvicinò a me e mi disse: ‘Stai tranquillo, ho avuto una vita meravigliosa’. È una battuta da grande sceneggiatore. L’elaborazione del lutto è complicata, un libro non serve a risolverla”.