“Gioia e dolore hanno un confine incerto”. Paolo Virzì si serve di un passaggio dell’Ave Maria di Fabrizio De André (anche utilizzata nel film) per sintetizzare al meglio il percorso che l’ha portato alla realizzazione del suo dodicesimo lavoro da regista, La pazza gioia, dal 17 maggio in sala con 01 distribution (400 le copie) e il 14 maggio in anteprima mondiale alla Quinzaine del Festival di Cannes, sezione che ospita anche Fai bei sogni di Bellocchio e Fiore di Giovannesi: “Mi piace pensare ad un insieme, chiamiamolo macrofilm, dove alcuni territori, o situazioni, possano ripresentarsi”, dice il regista quando gli facciamo notare che in un particolare momento del racconto sembra essere tornati in quel set nel set de La prima cosa bella.

Stavolta, come allora, protagonista del film è Micaela Ramazzotti, chiamata a dividere racconto e scena con Valeria Bruni Tedeschi. Sono rispettivamente Donatella Morelli e Beatrice Morandini Valdiriana: la prima è una giovane donna tatuata, fragile e silenziosa, che custodisce un doloroso segreto; la seconda una chiacchierona istrionica, sedicente contessa e a suo dire in intimità coi potenti della Terra. Entrambe sono ospiti a Villa Biondi, luogo di comunità terapeutica per donne con disturbi mentali, dove sono sottoposte a misure di sicurezza. La pazza gioia racconta l’imprevedibile amicizia che nasce tra queste due figure così apparentemente distanti, amicizia che porterà ad una fuga strampalata e toccante, alla ricerca di un po’ di felicità in quel manicomio a cielo aperto che è il mondo dei sani.

La pazza gioia

“L’immagine che ho di Micaela e Valeria insieme nasce durante la lavorazione del Capitale umano, quando Micaela – all’epoca col pancione – ci venne a trovare sul set. Riprendevo una scena con Gifuni e Bentivoglio, poi mi sono girato e le ho viste entrambe, in lontananza, che camminavano tra l’erba, il fango e la neve, con Valeria che conduceva Micaela verso il tendone del catering, la prima con addosso una specie di gualdrappa per coprirsi dal freddo sopra l’elegante abito di scena del personaggio, zampettando sui tacchi, mentre l’altra le arrancava dietro, con un misto di fiducia e sgomento: erano bellissime, buffe e forse un po’ matte. Due attrici molto istintive ma diverse, portatrici di mondi magari distanti, ma entrambi totalmente anticonvenzionali”, racconta Virzì che, per la prima volta, ha scritto la sceneggiatura di un suo film insieme alla collega, amica di una vita, Francesca Archibugi: “Da questa immagine Paolo ha sviluppato tutto il racconto. Poi se c’è una cosa che da sempre ci accomuna è quella di considerare naturale maneggiare i personaggi come dei casi clinici; entrambi raccontiamo sempre un po’ casi umani, un po’ casi clinici. Qui l’archetipo narrativo era poi molto forte, anche perché come diceva Flaiano tutte le storie d’amore iniziano con ‘Chi è ‘sta stronza?’”.

Ma l’insolita amicizia che stavolta gli autori portano sugli schermi è quella tra due personaggi che le istituzioni e, spesso, l’opinione pubblica, tendono a considerare “pericolosi”: “A me fanno paura le persone che hanno paura della pazzia – spiega Virzì –. Perché si fa in fretta a considerare i cosiddetti matti persone pericolose, e con la stessa fretta tendiamo a volerle allontanare, rassicurandoci di saperli in qualche bel luogo dove magari fanno musico-terapia, basta che siano in un posto sicuro. Il film, che considero realistico e con momenti da commedia avventurosa nonché trip psichedelico, con la macchina da presa che entra quasi negli sguardi delle due protagoniste anche alterati dai farmaci, è però anche frutto di una lunga esplorazione nel mondo delle strutture che si occupano del disagio mentale. Ci sono quelle come la Villa Biondi che raccontiamo nel film, pieni di energia vitale e dove si cerca di mettere in piedi progetti di riabilitazione ottimistici, poi ci sono anche i posti brutti, sconsolanti, dove i pazienti vengono custoditi in modo sbrigativo e sedati tutto il giorno. Ora, per fortuna, è entrata in vigore la legge che finalmente chiude gli OPG (Ospedali Psichiatrici Giudiziari, ndr), ma in sostanza non è stata cancellata la sostanza delle cose, visto che solo una parte degli internati ha trovato accoglienza in strutture alternative alla segregazione”.

C’è anche questo aspetto nel film che, però, come da titolo, ci accompagna in questo momento di “libertà”, di pazza gioia che Donatella e Beatrice decidono di vivere: “In fondo è la storia dell’amicizia tra due donne che diventa una rocambolesca avventura, con due strati, uno comico e uno drammatico, con due personaggi così distanti tra loro che finiscono per prendersi per mano”, dice Micaela Ramazzotti, per la terza volta diretta dal marito Virzì e, sempre per la terza volta, coinvolta in un lavoro della Archibugi (dopo aver recitato per lei in Questione di cuore e Il nome del figlio): “L’unione tra Paolo e Francesca genera qualcosa di potentissimo, si sente la passione che hanno per l’umanità, per tutti i lati dell’umanità, da quelli torvi a quelli ridicoli, senza giudicare mai i loro personaggi, ma abbracciandoli”, spiega l’attrice, per la prima volta impegnata in un film con Valeria Bruni Tedeschi: “La mia Beatrice ricorda la Blanche Dubois di Un tram chiamato desiderio, se vogliamo. Ed è figlia, così come tutto il film, di un copione meraviglioso, una scrittura simile ad una partitura musicale, molto precisa, complessa, ma anche con una sua semplicità di fondo. Per interpretare Beatrice però, molto spesso ho dovuto chiedere al mio Super-io di andare in vacanza per un po’, così da potermi lasciare andare più facilmente. In fondo non so se conosco davvero la follia: quello che so è che non posso dire di sentirmi pazza, ma non posso neanche dire di non sentirmi tale…”.

Due donne, che Paolo Virzì riesce a inquadrare con lo stesso, consueto sguardo, quello già appartenuto ai grandi della nostra commedia all’italiana: “Sin dai miei primi lavori mi hanno sempre interessato i personaggi femminili, ma non le donne virtuose, piuttosto quelle stigmatizzate, quelle che sbagliano. E la potenza che Micaela e Valeria sprigionano dal loro incontro in questo film è anche lì a dimostrare che, in determinate situazioni, se può esistere una cura è da ricercare nella relazione affettiva. È questa la giusta terapia per i personaggi di Donatella e Beatrice”.