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La preghiera, anche quando è collettiva, è pur sempre intima. Proprio per questo motivo, il rapporto fra la natura della preghiera e il linguaggio cinematografico, voyeuristico per eccellenza, si configura come complesso, a volte contraddittorio eppure, innegabilmente, affascinante. Su questo tema indaga il volume Il fuoco e la brezza del vento - cinema e preghiera (San Paolo Edizioni, gennaio 2015, pp. 120) scritto a quattro mani da Dario Cornati e Dario Edoardo Viganò, concepito come una riflessione a tutto campo sul momento d’incontro fra la dimensione spirituale della preghiera e la narrazione che di essa ha fatto, o ha tentato di fare, il mezzo cinematografico nel corso della sua storia, così inestricabilmente connessa con le vicissitudini del Novecento.
La N


Le parole del grande maestro russo Andrej Tarkovskij: “Mi è difficile parlare di Dio perché con me tace, e non sono il primo ad affermarlo”, poste in apertura della seconda parte del libro, sono lì a confermare la necessità assoluta di superare questo silenzio che pure è percepito, in rapporto ai bisogni dell’individuo, come fase imprescindibile per ri-appropriarsi della parola vera, per mettere a fuoco, così come al cinema anche nella vita intima di ciascuno di noi, ciò che davvero costituisce il nocciolo dell’esistenza umana.
Lungo questo sentiero, l’indagine condotta da Viganò in La preghiera tra campo e controcampo dello Spirito, disseziona il nervo sensibilissimo della potenzialità, insita nel mezzo cinematografico, di cogliere l’essenza dell’esperienza interiore dell’uomo, con i suoi travagli e le sue speranze. La prospettiva adottata conduce dunque a leggere i capolavori di Tarkovskij, di Bergman e di Bresson lungo l’asse portante della preghiera e dell’assenza/presenza di Dio nella vita dell’uomo moderno, seguendo un percorso che attraversa i decenni, le mode, la sensibilità degli autori e il mutare degli stessi criteri di intendere e di realizzare il cinema.
Operando poi una ricognizione critica delle più recenti proposte della cinematografia italiana e internazionale, senza adottare barriere di comodo tra cinema d’autore, commedia o documentario, l’autore pone l’esperienza filmica come autentica cassa di risonanza del nichilismo, apparentemente senza via d’uscita, del nostro tempo laicizzato dove persino i preti, privati dell’aura sacramentale e della forza trascendente del Verbo, sono sfiduciati e costretti ai margini della comunità oppure dediti al carrierismo mondano: la volontà di descrivere questo profondo senso di smarrimento è ciò che, più di ogni altra cosa, può accomunare la giovane Alice Rohrwacher a veterani come Moretti e Verdone per giungere sino a maestri del calibro di Terrence Malick. Va da sé, infine, che ognuno di questi cineasti offre, o non offre, una propria personale soluzione alla crisi o alla ricerca di una spiritualità più autentica in grado di colmare il vuoto interiore delle generazioni contemporanee.
Fissi nella memoria, restano tuttavia i due grandi film di Ingmar Bergman, Come in uno specchio e Luci d’inverno, i quali sembrano condensare al loro interno ogni più acuta e lacerante parola - incisa sul viso e sulle rughe di quello straordinario attore che è stato Gunnar Björnstrand, - che possa dirsi in ogni tempo tra la percezione dell’assenza di Dio nel mondo e al contempo il disperato bisogno per l’uomo di avvertirne la presenza, una necessità espressa dall’amore e vivificata dalla preghiera.