IO SPERIAMO CHE ME LA CAVO

ITALIA 1992
Trasferito a Corzano, in provincia di Napoli, solo per l'errore del Provveditorato agli Studi, il maestro Marco Tullio Sperelli è stato destinato ad una terza elementare. Lui, ligure, bravo ed onest'uomo, si trova subito in una situazione pressoché disastrosa. Non più di tre allievi in classe: il quarto deve andare a cercarselo a domicilio, gli altri (in tutto sono una ventina) li recupera qua e là, quasi sempre in strada. Nella classe (mista) ci sono bambini furbi, per lo più allegri, una bambina, Rosinella, che fa la tenera con il maestro, Vincenzino, intelligente e svelto, nonchè Raffaele, il più grande, già implicato a far da messaggero per la camorra locale. Per questo Sperelli, malgrado la propria mitezza, dà un ceffone a Raffaele il quale giura vendetta. Ma quel gesto violento propizia definitivamente al maestro il massimo rispetto di tutti i ragazzi. D'altra parte lui si preoccupa di tutti i suoi allievi, anche se ha già chiesto un altro trasferimento, poichè con quei ragazzi ed il loro ambiente pensa che non ce la farà mai. La madre di Raffaele, dopo avergli chiesto aiuto nel seguire il ragazzo perchè il marito non può occuparsi della sfortunata famiglia, quando una sera sta male accetta l'intervento di Sperelli che porta la donna all'ospedale e, con un altro gesto per lui insolito, s'impone al personale per ottenere un'immediata sistemazione della donna. Proprio mentre Raffaele sembra aver cambiato comportamento e pericolose amicizie e mentre ormai i ragazzi gli si sono affezionati, ecco che Sperelli riceve la comunicazione del suo trasferimento al Nord. Tutta la classe, con la direttrice e i padroni di casa (un pò bizzarri, ma con lui sempre delicati e premurosi) è alla stazione a salutare il maestro che se ne va per sempre. E Sperelli, che giorno dopo giorno si è lasciato addolcire e incantare da un clima e da un calore umano senza paragoni possibili, legge commosso in treno il tema "su di una parabola evangelica" che Raffaele gli ha consegnato all'ultimo minuto. Il tema (a scelta e il ragazzo ha scelto quello sulla fine dei mondo) è bellissimo, la descrizione adeguatamente drammatica e sorridendo alla speranza, il piccolo napoletano conclude fiducioso: "io speriamo che me la cavo".
SCHEDA FILM

Regia: Lina Wertmüller

Attori: Paolo Villaggio - Maestro Sperelli, Isa Danieli - Direttrice, Gigio Morra - Custode, Sergio Solli - Cartonaio, Paolo Bonacelli - Ludovico Mazzullo, Lucia Oreto - Madre Gennarino, Adriano Pantaleo - Vincenzino, Dario Esposito - Gennarino, Mario Porfito - Sindaco, Consalvo Dell'Arti - Don Gabriele, Antonio Scotto Di Frega - Mimmuccio, Salvatore Terracciano - Salvatore, Ilaria Troncone - Flora, Marco Troncone - Giustino, Carmela Pecoraro - Tommasina, Salvatore Emilio - Padre Tommasina, Giuliano Amatucci - Mezzarecchia, Alessandra De Tora - Angeluccia, Anna De Magistris - Brigida, Ciro Esposito - Raffaele, Ester Carloni - Esterina, Pier Francesco Borruto - Peppiniello, Pietro Bontempo - Padre Toto', Mario Bianco - Nicola, Pietro Bertone - Dott. Nicolella, Annarita D'Auria - Lucietta, Filomena Lieto - Checchina, Luigi Lastorina - Toto', Roberta Galli - Sorellina Toto', Maria Esposito - Rosiella, Ivano Salazaro - Giovanni, Fulvia Carotenuto - Madre Raffaele, Eduard Criscuolo - Dott. Arnone

Soggetto: Marcello D'Orta, Alessandro Bencivenni, Leo Benvenuti, Domenico Saverni, Piero De Bernardi, Lina Wertmüller

Sceneggiatura: Andrej Longo, Alessandro Bencivenni, Leo Benvenuti, Domenico Saverni, Lina Wertmüller, Piero De Bernardi

Fotografia: Gianni Tafani

Musiche: Dangio Greco, Pino D'Angiò

Montaggio: Pierluigi Lonardi

Scenografia: Enrico Job

Costumi: Benito Persico

Durata: 104

Colore: C

Genere: COMMEDIA

Specifiche tecniche: NORMALE A COLORI

Tratto da: LIBERAMENTE ISPIRATO DALL'OMONIMO LIBRO DI MARCELLO D'ORTA

Produzione: EUROLUX CECCHI GORI GROUP TIGER CINEMATOGRAFICA

Distribuzione: PENTA - PENTAVIDEO, MEDUSA VIDEO (PEPITE)

NOTE
REVISIONE MINISTERO OTTOBRE 1992.
TITOLO INGLESE: ME, LET'S HOPE I MAKE IT.
CRITICA
"Questo film lo si può volentieri collocare tra i migliori di Lina Wertmuller; sentimenti e freschezza di espressione. Non è mai facile dirigere e far recitare i bambini con naturalezza, evitando leziosaggini fastidiose. La trama è di per se fragile e si è addebitato al maestro trasferito dall'Italia del nord una lentezza eccessiva in quanto personaggio. Al contrario Paolo Villaggio lo ha compiutamente colto, lasciandosi catturare dalle voci pigolanti dei suoi allievi, comprendendoli nelle marachelle e furbizie, ma anche sapendoli capire nelle esperienze quotidiane e in quella espressione di dolore, che da secoli sedimenta perfino negli occhi dei bambini napoletani: per finire affascinato da bizzarrie e dolcezze, da melanconie e sorrisi nella confusione generale. Villaggio a tratti sognante, ma sempre partecipe, è stato delicato e bravissimo e gli allievi irresistibili. Il dialetto, con i suoi sapori, i suoi guizzi, il necessario e vivido miscuglio di allegria , di speranza e di scetticismo da sostanza e fa da mediatore e persuasore. Qua e la, probabilmente inevitabili, anche spunti e ritmi da sceneggiata (l'arresto da parte dei carabinieri di un ragazzo dei vicoli, con conseguenti clamori, lacrime e coralità del quartiere). Altrettanto inevitabile nello sfondo (ma pure in una miriade di echi e notazioni spicciole) la città ed il clima che si conoscono, senza per fortuna ricorrere a battibecchi e sfide Nord-Sud ultra acusate. Dalle labbra di alcuni bambini, per i quali la fanciullezza è stagione precoce e troppo presto finisce nel disincanto, fuoriesce qualche parolaccia". (Segnalazioni Cinematografiche).

"Irritante e folcloristica patacca alla vesuviana che Lina Wertmuller ha tratto dallo scaltro best seller di Marcello D'Orta, inventando la figura del maestro (là inesistente). Operazione quasi del tutto fallita, nonostante l'indubbia bravura di un Paolo Villaggio finalmente vedovo Fantozzi, perché il film sa più di sceneggiata che di commedia; e quei bambini evidentemente plagiati sono più insopportabili delle foche ammaestrate del circo". (Massimo Bertarelli, 'Il giornale', 6 settembre 2001)