Un'ora di grande cinema.

I copertoni della Ford Mustang "fumano" tra Madison Square Park e Wall Street.

Cimitero di automobili abbandonate. Vegetazione che prolifera in strada - vera giungla d'asfalto. Due leoni braccano un cervo in fuga.

La Grande Mela si offre così: marcita, bucata, divorata. A scrutarla gli occhi dell'unico (?) sopravvissuto alla pandemia che ha colpito la città, e quelli del suo cane.

La vista desolata e desolante di Robert Neville - una specie di Robinson Crusoe urbano - a replicare la nostra: spettatori delle rovine d'Occidente come l'Angelus novus di Klee.

Il lavoro sulle scenografie (di Naomi Shohan) è una delle cose più interessanti di questo Io sono Leggenda diretto da Francis Lawrence, terza versione per il cinema del celebre romanzo di Matheson. Non l'unica. Prima di riconsegnarsi nel finale alla più scontata cornice di genere - un horror con zombie inferociti che bruciano al sole come vampiri, passaggi più banali e alcune incongruenze di sceneggiatura - il film aveva già ripagato abbondantemente il prezzo del biglietto.

Non tanto per come riesce a evocare uno stato d'angoscia permanente giocando con semplicità e maestria sulla dialettica Luce/Buio, Silenzio/Rumore; non solo in virtù dell'ottima performance di Will Smith (e del cane), o per come riesce a intercettare gli umori dell'odierna pastorale americana di una conciliazione tra Fede e Ragione, Dio e Scienza.

Ma soprattutto perchè, operando un felice sincretismo di diverse produzioni recenti - da 28 giorni dopo a I figli degli uomini-, si pone come potente dispositivo simbolico, di ossessioni e paure contemporanee.

Un tempo, il nostro, "che persegue consapevolmente la salute ma in effetti crede solo nella realtà della malattia" ha scritto Ugo Volli. E allora ecco la pandemia, rappresentante metonimico dell'avvento apocalittico; ecco il virus, incubo dell'invisibile infiltrazione terroristica nel "corpo" sociale.

Ed ecco infine l'infetto, metafora dell'individuo privo di una sua integrità psico-fisica, che più non dispone di sé, prigioniero in qualche misura della sua infermità.

Dunque, niente di buono sul fronte Occidentale? Non proprio. Finché c'è qualcuno disposto a morire per qualcuno, qualcosa, c'è speranza. L'importante è non confondere le bombe a mano con le leggende, i kamikaze con i martiri.