Non si capisce perché la regista Gurinder Chadha abbia voluto chiudere il proprio film Viceroy’s House (fuori concorso a Berlino) con delle didascalie che raccontano la storia della propria famiglia, spezzata e riunita dalla scissione negli anni ’40 tra India e Pakistan. È certamente un racconto più appassionante dei 100 minuti che precedono quelle scritte.

Il film racconta del generale Hastings Ismay, ultime viceré in India incaricato di gestire l’indipendenza dell’India e il passaggio di consegne nell’ex-colonia britannica: ma a pochi mesi dall’insediamento, scoppiano rivolte e violenze tra la popolazione musulmana e quella indi, tra chi vuole un’India unita e chi vorrebbe scindere un nuovo paese, il Pakistan. Sullo sfondo della Storia, la storia d’amore contrastata tra due dei dipendenti indiani della casa del viceré. La regista assieme a Moira Buffini e Paul Mayeda Berges compone un dramma storico che porta tutti i segni tipici della produzione BBC a cui aggiunge, oltre l’ambientazione “esotica” il tocco cinematografico del melodramma bollywoodiano.

Sono due ingredienti dai sapori talmente diversi, dai codici filmici quasi opposti - l’accademia più o meno compita che racconta i personaggi storici e i loro dietro le quinte e il turgido dramma sentimentale fatto di eccessi e semplificazioni - che quella di Chadha sembra una sfida interessante. La regista però non trova mai il legante giusto tanto nel racconto, in cui le due vie scorrono parallele non avendo mai un reale effetto l’una sull’altra come due racconti uniti artificiosamente, quanto nella messinscena che procede piatta tra cura del dettaglio visivo, attori impeccabili, andamento tv nella gestione delle emozioni (ma The Crown è due passi avanti, grazie alla sapienza del suo autore Peter Morgan) e si concede di tanto in tanto lampi eccessivi con clima fuori luogo e zoom improvvisi.

Più che spiazzare lo spettatore, il mix vorrebbe blandirlo ma resta di fondo insipido e qua e là confuso nel modo in cui ricostruisce gli eventi reali e li comunica. Per carità, da Hugh Bonneville al recentemente scomparso Om Puri passando per Michael Gambon il lavoro degli attori è egregio e vale una visione. Ma resta soprattutto quel minuto finale, quella foto di famiglia e quelle poche righe - ennesimo ingrediente fuori posto - che hanno più forza evocativa e penetrazione nell’immaginario del resto della pellicola. Letteralmente, un film sbagliato.