Giocare con lo sguardo su un corpo, metterlo al centro di un film, lavorare sullo spettatore è un grande rischio che Sebastian Lelio, nel suo nuovo film Una mujer fantàstica in concorso a Berlino 2017, corre con consapevolezza e spavalderia sufficienti per superarlo o almeno per renderlo uno spettacolo interessante.

 Il film racconta di Marina, donna transessuale la cui vita è sconvolta dall’improvvisa morte del compagno, 20 anni più grande di lei e che per lei ha lasciato la famiglia: una famiglia che non ha perdonato l’affronto e che farà sentire a Marina il peso di un’identità sempre in divenire. Scritto dal regista con Gonzalo Maza, Una mujer fantàstica è un dramma intimo in cui i cambi di tono e registro servono a riflettere stilisticamente sulla percezione del sé e di quella da parte degli altri.

 Il film racconta il modo in cui una società - e la famiglia come suo nucleo - si rapporta con i corpi estranei (“Quando ti guardo, non so cosa sto guardando”, dice a Marina l’ex-moglie del defunto): prima della comprensione o del rigetto anche violento, c’è lo sguardo, il desiderio incomprensibile, la curiosità morbosa. Per questo Lelio lavora costantemente sul legame tra la protagonista Daniela Vega (rivelazione) e la macchina da presa, per far vivere allo spettatore - tra figure intere, inquadrature che la seguono, immagini che la squadrano e la scrutano - il peso dello sguardo degli altri, la semplice esistenza come fonte di curiosità e continua inquisizione.

Una mujer fantastica assume completamente su di sé la fascinazione per quel corpo - esaltato dal suo amore per la musica lirica o popolare -, non si pone moralisticamente lontano da esso e contro gli sguardi, ma nemmeno è ipocrita da titillare gli atteggiamenti che racconta e in parte condanna: accompagna il pubblico nella comprensione di una donna che deve prendere coscienza di una nuova molteplice identità (con qualche didascalismo simbolico qua e la) attraverso il cinema e il suo linguaggio, come nel precedente Gloria. Per questo, il tono noir elegante e almodòvariano (sottolineato dalla partitura di Matthew Herbert) oppure le aperture oniriche e gli strappi al racconto, che paiono sulle prime eccessi inutili, sono il corrispettivo stilistico del viaggio che Marina compie dentro i mutamenti del suo io, le variazioni della propria percezione per sopravvivere agli altri. Come se gli occhi e le parole (la lotta per farsi chiamare con il nome da donna) fossero più violente di qualunque pugno.