I suoni e le cose (senza scomodare Foucault). Ci sono – tra le altre – un paio di scene fondamentali in Memoria (2021) di Apichatpong Weerasethakul.

La prima è il tentativo, nello studio di registrazione, di ricostruire un suono a partire da una sua descrizione verbale: il tonfo che ossessiona la protagonista non può essere riprodotto se non a parole, la cui fonetica nulla ha a che fare col suono da rappresentare. Così, come le parole non somigliano alle cose che descrivono né acusticamente (perduta ormai nel setaccio culturale dei millenni pressoché ogni onomatopeia originaria) né tanto meno segnicamente, i suoni non hanno a che vedere con la loro fonte (verificata o presunta che sia) o con i vocaboli che li comunicano. È proprio attraverso la parola che il tecnico cerca di capire la fattura del suono. Lei vuole più «rotondo», ma la curvatura di questo suono sta in una potentissima analogia tra sensazione e figura ancora tutta da corroborare scientificamente. L’inquadratura più importante è quella ove si vede il monitor in cui si scorge lo spettro di questo suono, l’unica maniera di manifestarlo graficamente, giacché nessuna scrittura può soddisfarne l’immagine visiva.

Così, conducendoci alla seconda scena: durante l’esecuzione di un pezzo musicale, la camera indugia sul pubblico, sul lato cosiddetto estesico, quello della ricezione. È la visione che si fa ascolto, e viceversa: non è importante chi o cosa sia a produrre quei suoni (verrà svelato dopo, come la navicella spaziale del finale), bensì la loro percezione, come cioè si posizionano nello spazio i corpi – le figure – che accolgono i suoni.

La protagonista, come tutti noi, è un’antenna che capta i segnali. Chi ha visto il film sa che è esso un lavoro sul tempo – sulla compresenza, divisa dal linguaggio, di passato, presente e futuro – che è la categoria precipua dell’arte sonora; e sull’invisibile, quale il suono è. Ma nel cinema lo spazio, quindi la sospensione del continuo tempo presente, allora il visibile, invade anche il suono, ed ecco che questo segnale – questo suono misterioso – viene ricostruito, non registrato: esattamente come fa il cinema, che ricostruisce la realtà, non si limita a riprenderla. Nel ricostruire, affidandosi alla memoria, quindi all’interpretazione, si perde sempre qualcosa.

Non sappiamo se quel suono sia reale, attuale, ricordato, sognato. Il passato, come il futuro, è vago, immaginato (nel senso transitivo del termine: si fa immagine) nel presente e di questo suono, come di tutti i suoni, noi non sappiamo alcunché. Non sappiamo da dove provenga e dove vada, quando inizi davvero e quando s’estingua. Se la fotografia ci dice cosa essa rappresenta, il suono non lo fa («sono le scimmie urlatrici», viene rivelato da chi già lo sa). Ecco la protagonista – come la musica catturata, concretata, dal cinema – che parla con difficoltà una lingua straniera, si sente (è) aliena, forse morta; con sé reca un suono che non conosce, di cui può solo parlare; il suono ri-costruito è sur-reale. Nell’applicazione, che è interpretazione, il tempo si fa spazio.

Il suono è il non sapere, è il sentire, e la memoria sta in mezzo, tra la cosa e il nome che le diamo. E così è la metafora, l’imbattibile «come se», la regina del circuito ermeneutico al quale siamo condannati e che il cinema – così apparentemente diretto nella sua pantografia – ci illude di poter sconfiggere.