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Stan Brakhage
Alla fine degli anni Sessanta, Brian Stanley Johnson, autore inglese, anche di romanzi, diciamo, visuali, e autore di film sperimentali, scrisse, compose, realizzò, costruì (come si può dire?) un celebre “book in a box”, The Unfortunates, racconto in ventisette capitoli sparsi in una scatola, la cui copertina è una sorta di fotogramma bruciato pulsante in macchie amaranto e blu. A parte il primo e l'ultimo, il lettore-selezionatore preleva e ordina i capitoli come crede, aggregando e spostando la vicenda di un giornalista sportivo alle prese con i fantasmi del passato e un equilibrio instabile.
Quel che interessa qui è: quale disperato e divertente appello alla tangibilità della forma, toccare, manipolare, liberare il rapporto col lettore nel linguaggio. Opera aperta, d'accordo, ma soprattutto opera scoperta, accesa in quel disperato e divertente richiamo: liberati dall'oppressione del mio potere narrativo, prendi a pezzi ciò che si fa sempre intero, cerca qual è la parte misteriosa e originale di questa arte diversa da ogni altra, accedi a un “vero” linguaggio (dal linguaggio non si esce, impone Wittgenstein, d'accordo, ma prendiamo invece, per praticare una ribellione autentica, l'Hogwarts Express di Harry Potter e restiamoci sopra, però, senza meta, verso una purezza liberatoria, nel rischio dell'imprevedibile).
Questa richiesta, che ieri, e soprattutto oggi, si chiama anche sfida, è la condizione di fondo del cinema di James Stanley Brakhage (1933-2003), sperimentatore prima di tutto di se stesso nel rapporto col linguaggio dubitando del cinema, a partire dalla percezione di un'essenza (uno scarto) che non appartiene alle altri arti e che rende incompatibile, addirittura, il cinema con quel che crediamo sia stato ed è, questo in sintonia con “l'essenza impercettibile” di cui parlava Antonin Artaud a proposito di cinema e stregoneria.
Da qualche parte, forse nel volume Metafore della visione, Brakhage dice più o meno che né del film né dell'America sappiamo quasi nulla. Erano i primi anni Sessanta. Dell'America forse oggi ne sappiamo di più, soprattutto da qualche mese. Quanto al cinema: nel suo punto di vista forse è ancora così, se ci ostiniamo a seguire l'assioma “il cinema è il cinema”, ovvero che stiamo frequentando ciò che si è sviluppato, ciò che è stato prodotto, che non è esattamente ciò che è stato creato, o più propriamente ciò che è creabile con il cinema.
Sono appena alcune delle suggestioni che scorrono in lettura dell'accurato e coinvolgente studio su Brakhage di Cristiano Bellemo Percepire, esplorare, avventurarsi – Introduzione al cinema sperimentale di Stan Brakhage (Cinematografo Edizioni, con una prefazione del professor Mirco Melanco). Considerando, anche nei risvolti biografici e nel profilo delle avanguardie e dell'underground, il Brakhage-pensiero, Bellemo ci appassiona, a una “avventura percettiva”, come chiama giustamente cinque decenni di film fuori dall'idolo del prodotto come della odierna liquidità mediatica. Per certi versi, questo libro è un percorso di sanità mentale.


Mi spiego. Premesso che il cinema ci è scoppiato addosso (detto in un lampo, e scusandomi: se si è lucidi una porzione enorme dell'esistente della comunicazione è cinema), resta il mistero proprio di comprendere il cinema. Stare con Brakhage, oggi, dunque con queste pagine che inquadrandolo lo sollecitano e lo rilanciano nel nostro sguardo, è un po' come uscire dal “cinema”, da quel potere onnipresente e accerchiante nella vita. Pensiamo a quella che chiamiamo “la vitalità del linguaggio”, quel che in un tempo classico del cinema non volevano farci notare, eccetto noti provocatori (da Welles a Fellini e Ophuls), quel che in un tempo moderno veniva poi sfacciatamente risaltato e quel che in un tempo più prossimo a noi è decentrato per indurci a vari tipi di disorientamento.
Ebbene quella vitalità per Brakhage è indipendente non solo da qualsiasi progetto narrativo, ma dalla stessa ipotesi di cinema che abbiamo man mano conosciuto. Discorso un po' assurdo, è vero. Ma pare meno assurdo pensando alle ragioni della libertà e della (in)coscienza nell'arte, e pensando quanto il cinema abbia in questo senso vie non percorse, o mai attribuite nella (in)coscienza delle culture. Come del resto per ogni avanguardia? Come del resto nel periodo canonico delle Avanguardie? Bene, ma non è che così ci si sente più soddisfatti e meno poveri rispetto a quel che abbiamo perso e perdiamo. Anzi, semmai di qui si parte per godere della spinta di quella ricerca, di quelle avanguardie, di questo Brakhage, nell'esperienza del cinema che frequentiamo.
Inevitabile per Bellemo chiudere il libro con una riflessione lucidissima di Brakhage, capace di reclamare, di rilanciare, quel potere “materiale” della forma a cui accennavo all'inizio: “Preferirei vedere il mio lavoro come un tentativo di liberare aree estetiche, di liberare il cinema dalle arti e dalle ideologie precedenti, di lasciarlo chiaro per essere utile a uomini e donne a creare integrità formali di vario tipo che possano aiutare a far evolvere la sensibilità umana”.