Una ragazza, una casa sperduta in un’isola del Nord del Canada, un paesaggio selvatico e aspro, una biblioteca da catalogare: così inizia Orso, capolavoro di Marian Engel, libro originale e perturbante che, fin dalla sua uscita, non ha mai smesso di scandalizzare, perché tutto ciò che ha a che fare con il corpo delle donne non possa che finire, artisticamente, per essere inaccettabile. Tanto più se viene raccontato come una presa di coscienza, come il risvegliarsi di una parte di sé messa a tacere per tanto di quel tempo, dall’origine del mondo.

Margaret Atwood ha definito questo romanzo “insolito e meraviglioso”, e sono veri entrambi gli aggettivi, perfettamente esatti, perché è raro leggere scritture così audaci che si addentrano nell’universo sconveniente del desiderio femminile. E meraviglioso, perché la meraviglia è l’aspetto più bello della letteratura, quello che ti fa ricordare ogni volta, davvero, perché si diventa lettori, lo stupore che consegue al sublime, anche quando il sublime è pieno di spigoli.

Engel è stata capace di individuare un fondo e di mirarlo senza arretrare, per poi lasciare che la sua protagonista esplorasse sé stessa e il suo corpo, portandoci fin dentro i suoi e i nostri pensieri più ironici e perversi, portandoci a sorridere e spaventarci di noi stesse, insieme, come è giusto e contraddittorio che sia. Certo, questo è un libro per tutti, uomini e donne, e se le donne sussulteranno leggendolo anche agli uomini accadrà qualcosa di speculare: guarderanno dentro la metà del cielo che credevano di conoscere e non la riconosceranno, e allora davvero, forse, potranno provare a osservare.

Se penso a un film tratto da Orso, sento che dovrebbe avere l’attrice più brava di tutti, capace di essere opaca nella prima parte e lentamente consapevole nella seconda, di mostrare dalle prime scene un’energia taciuta e di lasciarla poi esplodere lentamente, muovendosi con una grazia speciale fra gli elementi di questo paesaggio: terra, aria, acqua, bosco, solitudine. Se questo film fosse un colore oscillerebbe tra il verde e l’azzurro, se fosse una musica sarebbe una composizione di Ravel.

Per il momento, è un libro, uno dei più disturbanti che possiate leggere, e questo deve fare la letteratura: scomporci, spostarci dai nostri luoghi sicuri, mostrarci con nitore la possibilità dello scandalo che è la possibilità dell’inciampo, che per sbaglio ti fa cadere ma in realtà ti mostra tutto da una prospettiva diversa. La vita di questa ragazza stanca di sé, e stanca anche di condurre un’esistenza piatta, arriva a un punto di svolta inaspettato quando scopre che, nella casa dove abiterà provvisoriamente e per lavoro, in un luogo lontano dalla sua vita quotidiana, vive un orso che sta lì da tantissimo tempo.

Le giornate, allora, a poco a poco cambiano colore. L’orso, l’estraneo, l’alterità animale: ecco con cosa deve fare i conti la ragazza, e tutte queste parole insieme si sommano e si trasformano in una magmatica e inafferrabile identità quasi spiritica che come uno specchio riflette l’essenza del femminile. L’orso, fatto di carne, pelo e zampate diventa allora grimaldello che fa saltare le convenzioni, laparoscopio che scandaglia i segreti più profondi, restando sempre, nella sua ferinità irriducibile, il catalizzatore di un eros sommerso, messo a tacere.

Engel sceglie un vecchio orso isolano per raccontare il risveglio epico della sensualità femminile, e anche nelle scene più difficili riesce a farlo in una maniera scabrosamente letteraria, ovvero senza cedere mai, nemmeno per una riga, alla faciloneria della volgarità. Il contatto fisico tra le due creature è mistico come una danza, ha qualcosa di sacrale, ma il suo fondo resta inaccessibile: per quanto possiamo sforzarci di semplificare dicendoci che ha a che fare con l’eros e basta, in realtà non riusciamo ad afferrare fino in fondo uno sconvolgimento che è, insieme, epidermico e spirituale. Per farlo, servono una regista coraggiosa, un’interprete straordinaria e occhi, i nostri, capaci di guardare laggiù in fondo ai nostri baratri.