Ho letto per la prima volta Mi chiamo Lucy Barton in un volo di ritorno da New York, e così mi è sembrato di stare ancora un po’ lì. Inizia con una voce di donna, convincentissima nella sua nebbiosità, che dice di aver dovuto trascorrere, tempo addietro, nove settimane in ospedale e lì dal suo letto vedeva il Chrysler “con la sua scintillante geometria di luci”.

Quel grattacielo simbolo della capitale americana è in copertina all’edizione italiana; Susanna Basso ha tradotto per i tipi di Einaudi questo libro magnifico e io immagino cosa potrebbe accadere se un regista girasse un film in quella stanza di ospedale, con fuori dalla finestra il tetto acuminato che brilla la notte e poi assorbe e riflette tutte le luci del giorno, dall’alba al tramonto.

Credo che tutti, come me, vorrebbero stare sempre in quella stanza, a sapere cosa succede alla protagonista, da dove viene quell’inquietudine lontana e quali sono i suoi rapporti con il marito, con le figlie, perché è sempre da sola. Finché non arriva un’altra donna, la madre. Per cinque notti e cinque giorni, le due si parlano ininterrottamente portando nel silenzio di quella quarantena una folla di fantasmi, i loro.

È un Decamerone, ma non ci sono altre storie se non quelle che le legano, non ci sono altre protagoniste se non loro due. Sì, ci sono gli altri; c’è una vecchia signora agonizzante, ci sono le infermiere, ma in realtà sono loro a prendersi tutta la scena, una scena vuota, perché la solitudine di Lucy Barton è infinita, come scopriamo poco alla volta: “non vidi più nessuno della mia famiglia fino al giorno in cui mia madre non comparve ai piedi del mio letto d’ospedale mentre il grattacielo Chrysler scintillava oltre il vetro”.

Se penso all’adattamento di Mi chiamo Lucy Barton, con madre e figlia una di fronte all’altra, portatrici di due vite divergenti, penso a due cose: il grattacielo e i dialoghi. Penso alle luci, ai piccoli rumori, i carrelli, i silenzi, gli improvvisi affollamenti delle visite in ospedale. Penso a un ambiente di cui lo spettatore sente l’odore di disinfettante, ma soprattutto quello di una famiglia, che non compare ma riempie la stanza, con la forza di certe separazioni e di certi legami che emerge poco a poco.

Penso a come si può mettere in scena quell’unica conversazione, lunghissima, fra le due: per quello che si dicono e per quello che non si dicono. A quanto è terribile il loro rapporto, e a quanto lo sia la scrittura di Strout: la sua protagonista è una scrittrice, e a un certo punto sa di dover essere spietata, se vuole essere brava.

E così immagino questo film, con la crudezza pervasiva delle storie familiari dalle quali non ti liberi mai, e al centro il punto esatto in cui per una donna ci sono due famiglie: quella di origine, rappresentata da sua madre, e quella nuova, rappresentata da suo marito. Come il naufragio della prima famiglia permette l’inizio della seconda, e come tutte naufragano comunque: ecco cos’è che questa storia racconta benissimo.