L’incipit più terribile, devastante ed esatto sull’essere figlia l’ha scritto un’autrice meravigliosa, cui spero che prima o poi vada un Nobel, ovvero Jamaica Kincaid: “Mia madre è morta nel momento in cui nascevo, e così per tutta la vita non c’è mai stato nulla fra me e l’eternità; alle mie spalle soffiava sempre un vento nero e desolato”.

Autobiografia di mia madre, pubblicato da Adelphi nella traduzione di David Mezzacapa, è un romanzo di una bellezza sconvolgente, scritto in prima persona da Xuela, che rivela il suo nome solo a un certo punto, con una voce in apparenza accartocciata e di certo convulsa. La protagonista ripercorre di sé nascita, infanzia, adolescenza, a partire dal trauma originario che è stato per lei venire al mondo, contestuale alla morte della donna che le ha dato la vita.

Xuela sarà tirata su da un padre con cui non riuscirà mai davvero a entrare in comunicazione, e un freddo rapporto di distanza sarà anche quello con la sua nuova moglie; resterà sempre un’osservatrice di persone e familiari, guardinga e diversa da suo fratello, da sua sorella. La sua voce crescerà e si farà sempre più consapevole del disamore intorno, che le impedisce di patire la mancanza di un sentimento più pieno: “Io non avevo ancora avuto l’amore”, scrive, “non era segnato nella mia colonna dei profitti, quindi non poteva essere segnato nella mia colonna delle perdite”.

È chiara la gerarchia quando è un trauma, una lacerazione a dare inizio alla nostra esistenza: “C’era mia madre in quella colonna delle perdite; l’amore non c’era ancora”. L’amore arriverà, assumendo strane e complesse forme, fino a farle dire: “L’amore mi ha sempre sconfitta. A dispetto dell’indifferenza e dell’egoismo ricevuti, Xuela sarà anche capace di accudire gli altri, ma a modo suo, e senza tentennamenti deciderà di non diventare madre: “Allora, forse, seppi che la bambina che era in me non si sarebbe mai acquietata abbastanza per permettermi di avere un figlio”.

Nel frattempo, la bambina nata mentre sua madre moriva cresce, cambia pelle, cambia odore, le compaiono i peli sotto le ascelle e fra le gambe, sente ingrossarsi il petto, inturgidirsi i capezzoli. Diventa affascinante, con lunghi capelli morbidi e fianchi rotondi. Prende l’abitudine di guardarsi dentro uno specchio rotto e fissare le sue labbra grosse che hanno la forma di un cuore rovesciato, annusa i propri odori che non sono più quelli dell’infanzia, studia la propria crescita e diventa, a tutti gli effetti madre di sé stessa, così che il lettore si chiede chi sia la madre citata nel titolo, quella di cui si scrive l’autobiografia: la donna morta o quella viva.

“Ridiventare una ragazzina non era più possibile, solo che non me ne resi conto subito”, scrive Xuela, dando voce alla crescita di ogni adolescente, che si trova all’improvviso imprigionato in nuove sembianze che non ha scelto. Ma in questa voce che racconta una famiglia, un matrimonio, il sesso, c’è anche una grande consapevolezza politica, delle proprie radici e del proprio sangue: Xuela nasce da madre cariba e padre metà scozzese e metà africano, e fa i conti con tutti questi popoli, ne descrive caratteristiche e destino.

“Quando guardavano me era questa la cosa che vedevano: il popolo caribico era stato sconfitto e poi sterminato, buttato via come le erbacce di un giardino; il popolo africano era stato sconfitto ma era sopravvissuto. Loro, quando mi guardavano, vedevano soltanto il popolo caribico. Si sbagliavano, ma io non glielo dissi.” Parla dei compagni di classe, i coetanei con cui avrà sempre un rapporto sfalsato, perché tutti i bambini hanno paura che la madre muoia, mentre Xuela non ha paura: a lei è successo davvero.

Quando ho chiuso questo romanzo così intenso non ho potuto fare a meno, per tutto il tempo, di immaginare il viso complesso di un’attrice che potesse portare il segno di una simile storia, che potesse esprimerla con sguardo, voce, mimica prima ancora che con una sceneggiatura. Continuo a pensarci, e a costruire quel viso dentro di me.