Quand’è che il comico vira nel grottesco? Succede se c’è almeno sotto traccia il senso del tragico. Il caso più clamoroso? Il dottor Stranamore - Ovvero: come ho imparato a non preoccuparmi e ad amare la bomba (1964) di Stanley Kubrick, scatenato atto d’accusa contro la follia atomica sullo sfondo degli incubi della guerra fredda. Il successo del film deve molto alla maschera beffarda di Peter Sellers che con istrionico trasformismo vi interpreta il capitano inglese Mandrake, il presidente Usa Muffly e il consigliere anglo-tedesco Stranamore, con la mano artificiale che scatta compulsivamente nel saluto nazista.

Nella commedia all’italiana nessun altro titolo lo è più di L’armata Brancaleone (1966) di Mario Monicelli. Guidato dal condottiero smargiasso, lo scalcinato gruppo di perdenti alle prese con i contadini, i soldati e gli straccioni, è la perfetta incarnazione del grottesco. “Siete voi pronti a morire pugnando?”. Quando Brancaleone da Norcia si rivolge ai suoi uomini con lo sproloquiante linguaggio maccheronico – reso ancora più irresistibile dalla dizione teatrale di Vittorio Gassman – si capisce che l’inventiva degli autori sta prendendo in giro il medioevo fatto di polvere, di ignoranza, di miseria, di fango, di freddo, a cui tutto il film si ispira.

L'armata Brancaleone
L'armata Brancaleone

L'armata Brancaleone

Una poltrona per due (1983) di John Landis si diverte a capovolgere lo zuccheroso perbenismo delle commedie alla Frank Capra grazie al cinismo dei fratelli Duke, i due magnati da operetta che per la scommessa di un dollaro decidono di rovinare la vita a Louis (Dan Aykroyd), il loro pupillo, offrendo all’imbroglione Valentine (Eddie Murphy) l’occasione di sostituirlo. Se lo scambio di ruoli ha la crudeltà che ci vuole, la chiave del grottesco contrassegna in modo indelebile la sequenza del party, dove Louis vestito da Babbo Natale si ubriaca senza ritegno e si infila un enorme salmone affumicato nella casacca. Non meno impagabile la scena del treno in cui Louis e Valentine, con l’aiuto del maggiordomo e della prostituta, cercano di incastrare il complice dei Duke fingendosi uno studente del Camerun, Inge la svedese, un pastore protestante con la fiaschetta di whisky a portata di mano.

Il gioco è ancora più scoperto in Il grande Lebowski (1998) di Joel e Ethan Coen che aggiornano in modo irresistibile l’Hard Boiled alla Humphrey Bogart. La trama è più imbrogliata che mai grazie ai prevedibili rituali della voce fuori campo, del miliardario che ingaggia il protagonista, del rapimento che non è un rapimento, della dark lady più smorfiosa che sofisticata. È un fuoco d’artificio che si risolve in una girandola di personaggi sgangherati. Se Jeff Bridges è uno strepitoso Lebowski, l’hippy invecchiato in calzoncini e sandali, i suoi amici John Goodman, Steve Buscemi, John Turturro, Ben Gazzara, quando tra uno spinello e un drink si ritrovano al bowling, sono uno spasso. Mentre le chiacchiere volgono al turpiloquio e le allucinazioni sembrano firmate da Busby Berkeley.