Roman Polanski compie oggi - 18 agosto - 90 anni. Maestro pluripremiato, la sua ultima fatica, The Palace, sarà ospitata Fuori Concorso all'imminente 80° Mostra di Venezia, uomo dalla vita costellata di tragedie (l'infanzia segnata dall'Olocausto, poi l'eccidio di Cielo Drive nel quale la setta di Manson uccise brutalmente la sua compagna, Sharon Tate, nell'agosto del 1969) e al centro di numerose vicende giudiziarie (le accuse per molestie sessuali, gli arresti, le condanne) che da anni lo costringono a non poter viaggiare per il rischio di estradizione, Polanski è un personaggio che non le ha mai mandate a dire. Come è facile intuire dalle dichiarazioni raccolte dalla nostra Rivista nel numero di giugno 1976, che riproponiamo di seguito: l'occasione era l'uscita de L'inquilino del terzo piano (Le locataire), ma non mancano alcuni passaggi - come quelli su Godard ("Chi è Godard?"), sul cinema underground ("buono come idea, pessimi i risultati" o sulla televisione - che oggi, a distanza di quasi 50 anni, fanno sì sorridere ma anche riflettere. Leggere per credere.


Polanski a Parigi. Vi ha girato un film che lo vede, per la prima volta dopo i lontani tempi di Il coltello nell'acqua attore principale (gli altri interpreti sono Isabelle Adjani, Bernard Fresson, Melvyn Douglas, Shelley Winters): Le locataire (t.l. L'inquilino).

Perché non si è servito di un altro attore?
"Ho voluto, una volta tanto, non litigare con qualcuno".

Il personaggio, disegnato in Le locataire, era difficile da rendersi?
"Abbastanza. Il film è un suspense psicologico. Racconta di un uomo che si distrugge mentalmente. Va a abitare in una vecchia casa. Qui, tempo prima, una donna si è uccisa. Quel sacrificio inutile lo ossessiona. Crede che i vicini stiano tramando un complotto a i suoi danni. E, per sfuggirgli, non gli resta che una sortita: uccidersi. Indossa, per l'occasione, abiti da donna, ripetendo, cioè, il gesto della precedente inquilina. Ma gli va meglio che a lei. Si salva".

Perché ha ambientato il film a Parigi?
"Mi piace cambiare città, nazione. E, qui, a Parigi, ci sono nato. Adesso prendo anche la cittadinanza francese".

È aggressivo quando si tratta di questioni ovvie.
"Non vi sono buoni scrittori che lavorino nel cinema tolto Robert Towne. Se lo fossero, si dedicherebbero ai libri. Per questo, scrivo sempre le sceneggiature dei miei film, anche se, a volte, prendo spunto da altri: nel caso di Le locataire, da un romanzo di Roland Topor. Amo scrivere la sceneggiatura di un film. È il momento in cui si 'costruisce' il racconto, si inventa la regia . Ma, anche sul set, continua l'opera di riflessione, di invenzione; però, su binari che sono già stati fissati".

Premi?
"Alcuni non significano niente e, quindi, è meglio non prenderli. Sono stato segnalato due o tre volte per l'Oscar. Hanno premiato il soggetto e la sceneggiatura di Chinatown. Ma l'Oscar, si sa, va sempre (o quasi) a registi mediocri. Basta vedere la cerimonia della premiazione, e viene voglia di vomitare. Se vincessi l'Oscar come regista non saprei se ridere o piangere: un felice errore o la constatazione di una caduta giù per la china? Se la giuria fosse composta da Fellini, Bergman e via dicendo, allora sarei contento di avere l'Oscar".

Su alcune questioni, è polemico (con misura). I festival?
"Sono utili per vendere i film e, di solito, vi si respira un'atmosfera piacevole. Solo a Cannes quando ci andai come giurato, mi divertii pochissimo; è andata meglio quest'anno... Fecero troppo chiasso. Allora, i cineasti giuravano sulla contestazione. Ma le loro proteste erano da circo più che da rivoluzione culturale. E, in seguito, si sono messi tranquilli, e non ci hanno dato molto di importante. Si, qualcosa di buono è venuto, da ultimo, solo dagli americani".

Come giudica il cinema americano?
"Ci sono dei bravi professionisti. Si preparano seriamente al loro mestiere, come ho fatto io del resto. Dai quattordici ai venti anni, ho lavorato come attore, anche in teatro. Ho superato gli esami al corso di cinema, in Polonia, prima di esordire con Il coltello nell'acqua".

Negli Stati Uniti, se non siamo male informati, i registi incominciano in televisione. Warhol dice che lei non ama la televisione. Se le chiedessero di lavorare in televisione, lo farebbe?
"Direi dì no, almeno adesso. Troppa pubblicità. Spezzano di continuo i film con gli avvisi pubblicitari, e la cosa mi fa impazzire. Quando la televisione disporrà di grandi schermi, tali da coprire l'intera parete, ci ripenserò. Si. fare un film per il cinema o per la televisione è, in fondo, la stessa cosa. Diverso è solo il modo del consumo che in televisione è tenuto, volutamente, a livelli scadenti".

Dicono che il pubblico gradisce tutto quanto passa sul piccolo schermo. Non amerebbe il nuovo.
"Se dai del caviale a un contadino, la prima volta non gli piace. Bisognerebbe differenziare la produzione, sia in cinema che in televisione, in modo che, a poco a poco, gli spettatori migliorino. Ci vorrebbe un numero maggiore di distributori coraggiosi. Il pubblico medio non conosce le cose nuove. Non ha, cosi, modo di assimilarle, ed esse restano disponibili solo per un pubblico elitario. Tutta la nouvelle vague e il free cinema e il resto si rivolgevano a spettatori sofisticati. Gli americani non hanno commesso questo errore".

Dei registi francesi, che cosa pensa? Di Godard per esempio, il quale si è ormai distaccato dal cinema inteso anche come commercio?
"Chi è Godard?".

Che cosa resta del "cinema del sottosuolo"?
"Niente. L'underground era buono come idea, pessimi i risultati".

Ci sono meno vampiri, demoni nei suoi ultimi film.
"Non mi divertono più. L'unica ragione che mi spingeva ad amarli era il divertimento che mi davano".

Erano vampiri, demoni per burla. Ne conosce di autentici?
"Sì, in Gog e Magog, un libro bellissimo di Martin Buber. Volevo ricavare da quel testo un film. Ma non mi hanno mai permesso di realizzarlo".

Gog e Magog tratta delle leggende e delle esperienze spirituali fiorite nella comunità ebraica della vecchia Polonia. Dirigerebbe di nuovo, se ne avesse la possibilità, un film in Polonia?
"Non vedo una buona ragione per farlo. Sono un cosmopolita".

(servizio a cura di Giulio Pautasso, Rivista del Cinematografo numero di giugno 1976)