“Nell'intimità Richard non urla, Richard suona ancora”.

Richard Philip Henry John Benson, per tutti Richard Benson – ma chi lo seguiva da tempo sa bene quanto ribadisse ogni volta il suo nome per esteso, con tanto di mitologia su quel passaporto VERO… - è morto il 10 maggio 2022, a 67 anni.

Qualche anno prima, nel 2016, su Repubblica TV era stato ospitato un video particolarmente doloroso: “Salve a tutti, sono Richard Benson e sono malato. Non posso permettermi le medicine quindi rivolgo un appello a tutti i miei fans, perché oggi rischio di morire”.

Presumiamo sia stata quella la scintilla che ha motivato Maurizio Scarcella a realizzare Benson – La vita è il nemico, documentario prodotto da Sarastro film e distribuito da Piano B distribuzioni in collaborazione con Andromeda film, presentato in anteprima lo scorso 8 dicembre al Nuovo Cinema Aquila di Roma.

Si parte – e si chiude – con immagini dal suo funerale, gremito di gente, nel mezzo Scarcella inserisce brandelli di quotidianità di Benson, per 18 mesi, dal 2016 al 2018, colto insieme alla moglie Ester Esposito in quel monolocale nell’Alessandrino, sommerso dall’indigenza e dagli avanzi di una vita che, di fatto, non esiste più.

Parallelamente si va in cerca di tutti coloro che, per un verso o per l’altro, lo hanno conosciuto “bene”: dagli esordi con gli Artificial Paradise - come racconta il fondatore Andrea Mingoli - poi l'incontro con l'arrangiatore Luigi Calabrò e Paolo Damiani, con i quali diede vita al gruppo prog Buon vecchio Charlie (e all’omonimo, unico album), arrivando ai vari Max Giusti, Piero Chiambretti, che lo hanno avuto in studio per i televisivi Stile libero e Chiambretti Night, passando per Federico Zampaglione (che nel 2015 produsse il suo secondo album in studio, L’inferno dei vivi, per capirci quello con il tormentone “I nani, i nani, i nani, i nani, i nani”…, con il videoclip diretto dallo stesso Zampaglione, con Dario Albertini alla fotografia e al montaggio) e Massimo Marino (morto nel 2019), animale notturno che per oltre 20 anni su vari emittenti locali mandava in onda "il meglio" della movida dei night club capitolini: "Richard diceva 'n sacco de cazzate, ma le diceva in maniera così convincente che se uno non lo conosceva ce credeva".

Certo, non propriamente ortodosso, ma forse è il modo migliore per sintetizzare la leggenda Richard Benson: il mistero sulle sue origini, le altisonanti collaborazioni, la fama underground arrivata con la liberalizzazione delle tv private, con quel favoloso contenitore che era 8ª Nota su TVA40, in un’epoca in cui non esistevano né la rete né tantomeno YouTube, e lui veicolava una conoscenza trasversale su generi e album musicali lontani anni luce dal mainstream (con tanto di omaggio da parte di Carlo Verdone che gli regalò una parte in Maledetto il giorno che t’ho incontrato, nel ’92, come conduttore del fittizio “Juke Box all'Idrogeno”), da lì il “simposio del metallo”, e via via una trasformazione (anche fisica, dovuta a vari malanni cronici, come la famigerata artrosi alle dita delle mani, proprio a lui, uno dei “chitarristi più veloci al mondo!”) che lo condusse anno dopo anno a mutare da artista a parodia di un artista.

Portatore di una “poetica decadente”, come la definisce Vittorio Sgarbi, protagonista di un “universo che sfugge al trash più becero”.

Un percorso voluto, o accidentale? Certamente cavalcato dallo stesso Benson, che dopo quel famoso “incidente” – come lo ha sempre definito lui – anche a detta di chi, appunto, lo conosceva (o pensava di conoscerlo) bene, non sarebbe mai più stato lo stesso.

Su quell'episodio, a cavallo tra gli anni 90 e i 2000, si susseguirono le leggende più disparate, Richard Benson l'ha sempre chiamato “incidente”, poi divenne il tentativo di omicidio da parte di qualcuno non bene identificato, in molti reputano si sia volutamente buttato da Ponte Sisto. Ma anziché finire in acqua si schiantò sulla pavimentazione al di qua del fiume.

“Manco er Tevere t’ha voluto!”, diventa allora uno dei tanti mantra urlati dai suoi fan in quei concerti-zoo dove il nostro prova ad esibirsi musicalmente ma viene travolto dal lancio di qualsiasi oggetto: tutto ebbe inizio nel 2003, al Coetus Pub, con quello che poi venne ribattezzato “Il Natale del Male”, il locale è talmente pieno che in molti non riescono ad entrare, qualcuno inizia ad insultare, a tirare qualcosa sul palco, “UN POLLLLLLLLLLOOOOOOOOOOOO!”, Benson gioca con la cosa e da quel momento ogni sua esibizione viene organizzata con lui sul palco “protetto” da una rete o da una gabbia metallica.

Ogni concerto (il culmine all’Alpheus nel 2008, “Io me ne vado, fatevi ridare i soldi, stronzi!”, con Richard che inizia a lanciare a sua volta la roba sul pubblico: è il culmine di una parabola che sfuma sulle immagini desolanti di un live che non esisterà mai e il palco sommerso di qualunque cosa, compresa una testa di porco…) diventa il pretesto per una battaglia senza esclusione di colpi tra lui ed Ester sul palco e i fan dall'altra parte, con insulti continui e lancio di qualsiasi oggetto.

Al punto che lo stesso Benson racconta: "Ho fatto dei concerti in tutto il mondo, ad esempio in Giappone, dove la gente sta ferma e in silenzio ad ascoltarmi. E in quei frangenti mi manca il pubblico che mi tira addosso la roba".

Il personaggio Benson, questa gigantesca contraddizione vivente, è forse tutta qui: un uomo che alla fine dei suoi giorni si è “lasciato andare per la disperazione di non essere più sulla breccia”, un uomo-artista-performer dal timbro di voce inconfondibile e spaventoso, figura antesignana per la creazione di qualsiasi meme quando ancora i meme non esistevano, con quegli occhi di ghiaccio e quella parrucca nera “infernale”, uomo che a suo dire ha “visto 32 volte la morte in faccia, un po' ti fa pensare... che sono immortale”, fabbricatore indefesso di aneddoti passati alla storia (“GREIS GIONS”, Vancouver, il giovane “MARLIN MENSON”, o, più recentemente, come racconta Zampaglione: "Quando abbiamo fatto il disco ha cancellato tutte le interviste per la promozione dicendo che lui non poteva perché era in America a fare il concerto con Rihanna"), che nell’ultima fase della sua vita viene colto lì, in quel piccolo appartamento, da solo (Ester, sempre al suo fianco, era ricoverata per depressione), debilitato nel corpo e con lo sguardo perso nel vuoto (“La vita mi fa paura, non la morte”…) quasi inseguendo idealmente un’ultima uscita a effetto, un urlo micidiale, il primo, ulteriore passo, verso una nuova Processione.