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La scuola Rossellini allestita nel campo profughi del Kurdistan siriano
Sul confine che separa la guerra dal dopoguerra, c’è una tenda. Dentro, non c’è molto: qualche sedia, due vecchie videocamere, un telo appeso a una parete, una manciata di bambini. È qui che Fariborz Kamkari ha piantato la sua scuola di cinema. «È una tenda, non una scuola come la intendiamo noi. Ma è lì che accade qualcosa: bambini che scoprono il potere di raccontare, che imparano a vedere il mondo in un altro modo».
Regista e sceneggiatore iraniano di origine curda, autore de I fiori di Kirkuk, Pitza e datteri, del documentario Kurdbun e del libro Ritorno in Iran, Kamkari porta avanti da anni — senza fondi, senza legami istituzionali — un progetto educativo nei campi profughi del Kurdistan. Tre le scuole attive: due in Iraq e una in Siria, a Qsneshlu, un campo tra i più complessi al mondo, che ospita familiari di combattenti dell’ISIS. «Questi bambini non solo sono figli della guerra, ma sono figli dei criminali di guerra», spiega. «Le madri spesso sono europee, senza cittadinanza, radicalizzate. È una realtà durissima. Eppure, anche lì, il cinema riesce a creare uno spazio di speranza».


Fariborz Kamkari
Kamkari lo chiama "doppia missione": offrire un’alternativa culturale a bambini esposti fin dalla nascita alla violenza ideologica, ma anche combattere contro la volontà di famiglie che ostacolano la partecipazione alle attività. «Le madri non vogliono che i figli frequentino queste attività. Ma la voglia di raccontare è più forte. I bambini scappano per venire a vedere un film, a fotografare, a scrivere. È commovente».
Le proiezioni si tengono due volte a settimana, in spazi improvvisati: una piazza, uno spiazzo polveroso, uno schermo recuperato da casa. «All’inizio proiettavamo su lenzuola, come in Nuovo Cinema Paradiso», racconta. I film sono scelti con cura: niente blockbuster americani, ma cinema europeo, in particolare italiano. «Rossellini, Pasolini, Fellini. Perché il cinema italiano ha saputo dare forma alla speranza, anche nella miseria». Una delle scuole porta proprio il nome di Rossellini, un’altra quello di Federico Fellini: «Perché la guerra ti toglie la capacità di sognare. E Fellini è il maestro del sogno».


La scuola Rossellini è il terzo progetto formativo portato avanti da Fariborz Kamkari in questa parte di mondo: in precedenza erano nate la Scuola Fellini e la Scuola Pasolini nel Kurdistan iracheno
Nelle attività — cineforum, laboratori di fotografia, scrittura, teatro — i bambini iniziano a produrre le prime opere, con telefoni cellulari e materiali di fortuna. «Ho portato due telecamere che non usavo più, un vecchio schermo. I collaboratori sono volontari, registi, fotografi che viaggiano con me o da soli. È un progetto 100% indipendente, nato per ripagare un debito che sento: io sono stato un bambino di guerra, e il cinema mi ha salvato. Oggi tocca a me farlo arrivare agli altri».
Il progetto è nato per caso nel 2017, durante un sopralluogo in Kurdistan per un film. Kamkari chiese di poter usare una tenda nel campo per una proiezione. Portò un televisore, un lettore DVD e alcuni film. «Sono arrivati dei ragazzi. Poi sempre di più. Poi altri registi locali hanno voluto unirsi. E da lì è nata la prima scuola, la “Federico Fellini”.»
Oggi le tre scuole sono attive, ciascuna con la propria comunità. In quella di Qsneshlu, si sono mostrati anche Tarkovskij e Bergman. «Una ragazza mi ha detto: “Bergman mi propone una cosa e mi dà anche la risposta. Tarkovskij mi invita a pensare una cosa e non mi dà la risposta”. Lì ho capito che siamo sulla strada giusta».
Nonostante l’assenza di mezzi, l’iniziativa ha radici profonde e ramificazioni insospettabili. In alcuni casi, anche i genitori — inizialmente ostili — hanno cominciato ad assistere alle proiezioni. «L’arte fa breccia. Sempre. Anche nelle situazioni più cupe».


La maggior parte dei film arrivano dall'Europa non doppiati, per abituare i ragazzi a comprendere la lingua delle immagini
Accanto a questo impegno, Kamkari non ha smesso di fare cinema. Ha realizzato Lettere da Shangal, un docu-film sul genocidio del popolo yazida, e Bosco Martese, dedicato alla prima lotta armata della Resistenza italiana. «Oggi la parola “resistenza” deve essere liberata dai suoi vincoli storici. Deve tornare a significare qualcosa anche per i giovani. Perché l’indifferenza è il nemico più insidioso».
Ora sta lavorando a un nuovo film di finzione, una coproduzione italo-francese che, nelle sue parole, sarà «un film sulla pace». Ma non solo: «Sarà un film dove l’Italia non è solo una location o un contesto, ma una protagonista vera. Voglio mostrare la forza culturale dell’Italia, il suo patrimonio umano, spirituale, cinematografico. Se questo Paese si libera da certi limiti e paure, può diventare una forza trainante per la pace mondiale. Il cinema italiano ce lo ha insegnato».
Kamkari guarda all’Italia con gratitudine e visione. «Io vivo tra due mondi. E il cinema è il mio modo per costruire un ponte. Non per raccontare storie pietose, ma per offrire una voce autentica, libera, necessaria. E l’Italia, che ha generato Rossellini, Fellini, Pasolini, ha tutto per essere ancora guida nel dialogo tra i popoli».