Ci sono esseri umani che stabiliscono immediatamente un contatto, che danno voglia di cominciare una conversazione: lo sguardo franco di Liliana Cavani, il suo sorriso pieno di attese, creano immediatamente il desiderio che quel rapporto, per quanto labile, non si interrompa dopo poche frasi di rito.

La bambina Liliana ha uno zio e una zia che portano lo stesso nome, Libero e Libera, e una madre che l’accompagna al cinema. Più tardi, studentessa universitaria, fonda un cineclub in una sala accanto ad un convento, per mostrare i film di Bergman, Dreyer e Bresson. Frequenta a Roma il Centro Sperimentale di Cinematografia con Marco Bellocchio e Silvano Agosti, e vince un concorso come funzionario alla Rai, ma rinuncia al “posto fisso”; propone invece dei documentari per il secondo canale, il canale culturale che non ha ancora piena diffusione nazionale. Così nasce Francesco d’Assisi.

Cavani dimostra subito un istinto infallibile nella scelta degli attori: per il ruolo di Francesco sceglie Lou Castel, non per averlo visto ne I pugni in tasca, che è ancora in fase di montaggio, ma per il suo sguardo pensoso, la risata luminosa, e la predisposizione propria delle persone fragili a donare tutto. Nel corso della sua carriera selezionerà sempre attori ricchi di talento e di umanità, scelti non solo per le doti interpretative, ma per il temperamento e le fattezze che possiedono; con il loro modo di parlare, camminare, gesticolare, sono già l’incarnazione del tipo umano descritto in sceneggiatura.

Charlotte Rampling e Dirk Bogarde in Il portiere di notte (Webphoto)
Charlotte Rampling e Dirk Bogarde in Il portiere di notte (Webphoto)

Charlotte Rampling e Dirk Bogarde in Il portiere di notte (Webphoto)

Le basterà vedere entrare in un hotel Charlotte Rampling, per esclamare “È lei!”, per riconoscere in lei la sua Lucia, il personaggio più iconico del suo film più famoso, Il portiere di notte. Il soggetto (una pagina e mezza scritta in un paio d’ore, un pomeriggio) le balena alla mente dopo aver girato i primi documentari, Storia del Terzo Reich, e La donna nella Resistenza in cui le partigiane, ormai cinquantenni, si raccontano. Una di loro, una donna di Cuneo, le rivela che ogni anno torna a Dachau; un’altra, una donna dell’alta borghesia di Milano, alla domanda “Cosa non perdonerà mai?”, risponde “Avermi fatto incontrare una parte di me che non conoscevo, quella che voleva sopravvivere ad ogni costo”. Non spiegano, queste donne, ma il loro sguardo rivela più di quanto non dicano.

Anche per il suo film Liliana Cavani evita i dialoghi didascalici, non ha paura di raccontare una storia d’amore paradossale, in cui un carnefice è pronto ad uccidere e a farsi uccidere per amore della sua vittima, che gli si consegna volontariamente e si vendica rendendoglisi indispensabile. Il film precipita verso il buio come un noir, con la tragica leggerezza della musica di Mozart che ci traghetta senza soluzione di continuità dalla sala da concerti al lager. Fa scandalo dappertutto, ma per ragioni diverse: in Francia perché l’eroe è un nazista, in Italia per l’erotismo aggressivo della protagonista. In pochi leggono la metafora del microcosmo dell’Hotel Zur Oper come l’Europa, del gruppetto di nazisti che rifiutano le loro colpe come un rigurgito sempre possibile, perché tutti abbiamo in noi l’orrore, e la possibilità di esplorarlo.

Al di là del bene e del male (Webphoto)
Al di là del bene e del male (Webphoto)

Al di là del bene e del male (Webphoto)

La cultura tedesca continua ad affascinarla (ha sempre girato dei film non sulle cose che riteneva di sapere, ma su quelle che desiderava studiare e comprendere), e le dedica Al di là del bene e del male, in cui esplora le teorie di Nietzsche, e Interno berlinese, ispirato a un romanzo di Tanizaki, nel cui prologo leggiamo una frase di Schopenhauer, programmatica per il cinema di Liliana Cavani: “Non nella storia universale, come vaneggia la filosofia dei professori, vi è disegno e unità, ma nella vita del singolo”.

Soprattutto ritorna, per fatale fascinazione, all’incontro con Francesco. Quasi venticinque anni dopo sceglie, per incarnarlo, il volto e il corpo di Mickey Rourke, attore e divo dalla fisicità ineludibile in quella fine del decennio Ottanta. “L’amore aveva reso il suo corpo uguale al corpo dell’amato.” È la battuta finale del film, e il corpo di Francesco, sin dalla sequenza iniziale, è doppio speculare dal corpo di Cristo, sua immagine riflessa ed abbracciata, quando a San Damiano solleva, abbracciandolo, il Crocifisso. Aderisce a quel corpo sofferente, ne eredita, Alter Christus, il messaggio rivoluzionario dell’amore, della fratellanza, della verità.

Nel Portiere di notte c’è, indimenticabile, lo sguardo con cui Lucia e Max si riconoscono al di là delle maschere e dei travestimenti che indossano (la livrea da portiere, lui, lo scintillante abito da sera, lei) per recitare i loro ruoli. Quello sguardo, in cui c’è smarrimento, incredulità, vergogna, paura, desiderio, è la memoria della verità che torna. Perché per capire non bisogna dimenticare. Grazie, Liliana Cavani, per avercelo ricordato, per non cessare di ricordarcelo.