Ancora la guerra. Filtrata dagli occhi di un gruppo di dame inglesi e di un regista in erba di nome Franco Zeffirelli. Gli ultimi sussulti della patria dantesca prima della tragedia mondiale. È il 1935 e Luca, figlio illegittimo di un mercante di tessuti e orfano di madre, viene “adottato” da Mary Wallace (Joan Plowright), l’insegnante di inglese a cui era stato affidato per imparare la lingua. Della comunità fiorentina-anglosassone fanno parte altre anziane, pittoresche, signore che si prendono cura del bambino. La svampita Judi Dench, la regale e arcigna Maggie Smith. E poi le “americane”, l’archeologa Lili Tomlin, l’estrosa Cher.

Nella sua bella villa romana, in cui le fotografie di volti famosi del cinema si alternano a quelle dei presidenti che hanno fatto la storia d’America, Franco Zeffirelli racconta con grande generosità aneddoti ed episodi di vita vissuta. Un’epoca consacrata, dopo molte vicissitudini, nel suo ultimo lavoro Un te’ con Mussolini, una coproduzione italo-inglese (per l’Italia Riccardo Tozzi e Giovannella Zannone), distribuita nel mondo da Medusa e Universal.

Zeffirelli, si tratta di un film autobiografico?
È basato sulla contemplazione di alcuni fatti a cui ho assistito da bambino. Non racconto la mia storia ma quello che ricordo e forse neanche accuratamente perché gli occhi di un fanciullo, di un adolescente vanno all’essenza delle cose. Vicende che ho ripensato, rielaborato, con una drammatizzazione inevitabile.

Un tè con Mussolini (credits: Philippe Antonello - Webphoto)
Un tè con Mussolini (credits: Philippe Antonello - Webphoto)

Un tè con Mussolini (credits: Philippe Antonello - Webphoto)

Cosa c’era di particolare in quel periodo a Firenze? Era una città straordinaria dal punto di vista culturale, a cui lei ha dato uno spessore internazionale.
È impossibile non darle uno spessore di questo tipo. Firenze me l’hanno rivelata quelli che non erano fiorentini. Da ragazzino andavo a scuola, attraversavo il centro e c’era il Davide di Michelangelo, il Perseo del Cellini. Chi li guardava? Le signore inglesi che mi accompagnavano a scuola mi facevano notare ciò che non vedevo. Una di loro mi portò un giorno alla gipsoteca della Scuola d’Arte di Porta Romana dove c’è la più straordinaria collezione di calchi di tutta la scultura della storia dell’uomo: ebbi uno shock. Sono cose che ti vulnerano, che ti fanno capire lo spessore della cultura del mondo in cui hai avuto la fortuna di nascere e crescere. In questo panorama è arrivato il fascismo, con connotazioni particolari, brutte perché ha ravvivato e riacceso fuochi lontani di risse comunali, bianchi, neri, guelfi, ghibellini, quella faziosità che ha piagato Firenze da sempre.

C’era quindi un fascismo più sanguigno?
Più arrogante, quello squadristico, delle bande comunali, delle bande medievali fiorentine. Longanesi diceva che Mussolini aveva la grande virtù di dare a ogni italiano un’ispirazione malefica e il senso del potere. Tutti coloro che ebbero l’occasione di avere un potere formarono quel movimento totalitario che era il fascismo. Ben oltre, a volte, la politica generale del fascismo che era in mano a uomini di qualità come Grandi, Bottai, Pavolini… A livello popolare, quotidiano il fascismo assumeva connotazioni e caratteri diversi secondo le culture in cui si inseriva. Nel film si vede ciò che ricordo con i miei occhi di bambino, e quello che le inglesi, dopo un primo innamoramento, capirono: ossia che stavano cascando in una trappola. I primi dieci anni Mussolini fece cose molto sensate come il Concordato con la Chiesa, alcune riforme sindacali importanti, l’Opera Nazionale della Maternità e Infanzia dando alle donne un rango, un’importanza e una responsabilità inusitate. Sempre a Mussolini si deve lo sviluppo della dignità del contadino, del lavoratore della terra, prima considerato come uno schiavo. Il film comincia nel ‘35, l’ultimo anno di questo paradiso, di amicizia e di serenità. Le inglesi erano tranquille e felici. Quando però l’Inghilterra si mise contro l’Italia si trovarono sbilanciate perché Mussolini, nonostante avesse dato loro garanzia di amicizia, di tolleranza e di protezione, le mandò al macello. E queste ingenue, pazze, sognarono fino in fondo che Mussolini sarebbe andato in loro soccorso. Per mia fortuna conobbi un uomo meraviglioso, Giorgio La Pira, che mi mise in guardia dal fascismo.

Un tè con Mussolini (credits: Philippe Antonello - Webphoto)
Un tè con Mussolini (credits: Philippe Antonello - Webphoto)

Un tè con Mussolini (credits: Philippe Antonello - Webphoto)

Lei realizza film molto particolari rispetto a quelli che si girano in Italia, soffre questa differenza?
Veramente io ho un’altra storia, prima di tutto sono anziano. Fossi all’inizio della carriera potrei avere dei tormenti di scelta, adesso è tardi per averne. E poi disgraziatamente il quadro alternativo che mi si offre è talmente squallido da annullare ogni tentazione. Guardo i nostri cineasti con molta tristezza perché ho visto il grande cinema italiano, chi c’era e oggi non c’è più. Dopo oltre quarant’anni Ladri di biciclette si guarda ancora, i film che si realizzano adesso l’anno prossimo non li ricorda più nessuno.

Cosa bisognerebbe fare per invertire la tendenza?
Cambiare il Paese, cambiare la mentalità, i condizionamenti mentali, dare fiducia alle forze liberali. L’omologazione del pensiero è la tragedia dell’intellettuale, della gente di cultura, e sono loro i primi responsabili di questo sfacelo perché non hanno saputo dire di no.

Non è perciò un fenomeno puramente cinematografico?
Il cinema è specchio di una società. Non crea, non genera, osserva, commenta e documenta. Altra cosa è se al mezzo, che attinge alle ispirazioni che gli provengono dalla società, si sovrappone un talento geniale come poteva essere quello di De Sica, Fellini, Rossellini ma anche di Bellocchio, i cui primi film erano sbalorditivi. Questa situazione camuffa anche un’impotenza creativa, nonostante molti abbiano dei fermenti positivi. Gianni Amelio ad esempio è una persona che ha un bel mondo da raccontare e si perde invece tristemente nel non sapere affrontare le continue scelte che si trovano sul nostro cammino. Tutto si riduce a una contemplazione statica di una situazione sociale che non ha sbocco. Siamo travolti da una marea di inutilità, la televisione ci bombarda 23 ore su 24 con cose che non contano niente. Non si vede più teatro, non si vedono più le grandi opere, nessuno pensa a recuperare le cose importanti e riproporle.

Come ha realizzato Un tè con Mussolini dal punto di vista produttivo?
Ci sono stati dei problemi perché era un film di vecchie signore e oggi se non c’è un po’ di sesso come si fa? A chi lo vendi? Invece l’originalità del film è che finalmente si racconta la storia di persone anziane. Tra l’altro il 40 per cento del pubblico è sopra i quarant’anni. Il film è stato prodotto da una persona che si chiama Riccardo Tozzi, con il quale avevo già fatto Jane Eyre. Siamo diventati molto amici e dopo Jane Eyre mi ha detto “perché non fai il film della tua infanzia?”. Era una cosa che mi era stata chiesta molte volte. In realtà doveva essere il mio film d’esordio nel ‘52 quando finii il corso con Visconti. Franco Rosi, anche lui allievo come me, fece il suo debutto con Salvatore Giuliano, mentre io volevo fare il mio con la storia delle vecchie signore inglesi della mia infanzia.

Un tè con Mussolini (credits: Philippe Antonello - Webphoto)
Un tè con Mussolini (credits: Philippe Antonello - Webphoto)

 

Un tè con Mussolini (credits: Philippe Antonello - Webphoto)

Il soggetto si chiamava Le nemiche. Giuliano allora era di palpitante attualità e per Franco fu facile realizzarlo, io non trovai molti consensi e intrapresi la mia carriera attraverso l’Opera, il teatro classico. Poi, nel corso degli anni, gradualmente, sono tornato verso il cinema. Dopo aver scritto la mia autobiografia in inglese (tradotta in undici lingue ma non in italiano!), e aver scoperto che i primi tre capitoli affascinavano moltissimo i lettori mi hanno chiesto di fare un film. A quel punto però non era più soltanto la storia delle Nemiche ma diventava anche la mia storia. E questo mi ha fatto un po’ titubare. Perché a meno di non essere quel genio di Fellini i film autobiografici sono difficili. Si ha l’imbarazzo di dire troppo o troppo poco, di non trovare la misura tra la vanità e la paura di non riuscire a comunicare ciò che vorresti. La prospettiva del tempo aveva però appianato il pericolo del “self-indulgence” e quindi ho iniziato a lavorare con uno scrittore straordinario, John Mortimer. E’ venuto fuori un racconto che è in parte autobiografico perché mi identifico nel personaggio del bambino prima e del ragazzino dopo, che funge da catalizzatore, da collante di tutte le storie. Alla fine il protagonista del film è lui.

È stato il produttore italiano a cercare dei partner internazionali?
Li ha convinti la Medusa. Il primo copione è piaciuto molto alla Universal, alla MGM e agli inglesi e il progetto è fiorito. Con grandi difficoltà però. Poi è cominciato il discorso del cast: la prima è stata Joan Plowright a cui da tempo avevo parlato del progetto. Con Maggie Smith siamo vecchi amici ma aveva appena perso il marito e si trovava in uno stato di depressione assoluta. Le ho parlato e alla fine mi ha detto “non hai nulla da farmi fare?”. Due giorni dopo aver letto il copione mi ha detto che voleva venire a Firenze. Judi Dench, invece era stata Giulietta nel mio primo allestimento a Londra, nel 1961. Nel giro di una settimana le tre inglesi sono piombate in Italia e gli americani hanno iniziato a vedere la cosa con occhi diversi. Mi mancavano le due americane e il confronto con queste grandi attrici poteva essere di ostacolo, ma è arrivata la comunicazione di Cher che il personaggio le era piaciuto moltissimo e che si metteva a disposizione. Per la quinta ho trovato una meravigliosa attrice che è Lily Tomlin. Il quintetto si è formato nel giro di tre settimane e il film è partito.

È molto contento di questa operazione?
Sì, c’è stato un tale apporto di gioia, di volontà e di entusiasmo… E poi Firenze, rivedere la Toscana, rivivere anche dei momenti della mia vita non sempre piacevoli. Il miracolo del cinema è che ti dà la possibilità quasi diabolica di riportare in vita il passato. E’ stata proprio una gioia rivisitare se stessi anche agli occhi del ricordo e rendere omaggio a tanta gente cara che ho conosciuto ed è sparita ormai. Se fai il regista di cinema vivi due volte: la vita reale, quotidiana e quella della tua fantasia. Sono livelli paralleli straordinari. Ringrazio il cielo a mani giunte di aver fatto questo mestiere.

Qual è il sogno di Zeffirelli?
C’è ancora un sogno da realizzare cinematograficamente? Spero di non smettere di lavorare, mai.