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Viggo Mortensen e Liv Tayler ne Il Signore dgeli Anelli - Il ritorno del re (2003) - @Webphoto
Il Signore degli Anelli – Il ritorno del re torna in sala 22 anni dopo l’uscita (dal 7 fino al 13 agosto) e allora dobbiamo chiederci: che cosa ha lasciato nel nostro immaginario? Nel sistema industriale? Dove sta oggi la sua modernità?
Torna in 4K in coda a un ciclo estivo che ha riproposto tutta la trilogia: prima La Compagnia dell’Anello, poi Le due torri, ora il coronamento con Il ritorno del re. Negli USA l’operazione è passata da Fathom Events con le versioni rimasterizzate ed estese, mentre in Italia diverse catene hanno programmato la rassegna tra fine luglio e metà agosto: un ripasso collettivo, su grande schermo, della costruzione di un mondo.


Elijah Wood ne Il Signore dgeli Anelli - Il ritorno del re (2003) - @Webphoto
(Photographer: Pierre Vinet)Nel 2003, Il ritorno del re siglava l’impresa con un record da scolpire nella roccia: 11 Oscar su 11 candidature (come Ben-Hur e Titanic), primo fantasy a vincere come Miglior film, e un incasso mondiale superiore a 1,1 miliardi di dollari. Ma i numeri sono la superficie; sotto c’era una sensazione più sottile e persistente: l’impressione, cioè, di aver visto un film “più grande” di noi, eppure accessibile, un’opera che non chiedeva di essere “creduta” ma abitata.
La trama, spogliata degli orpelli, è un doppio movimento: distrarre l’occhio del Male (Sauron) con la guerra dei vivi (Gandalf, Aragorn, Rohan, Gondor) mentre due figure minuscole — gli hobbit Frodo e Sam — tentano ciò che nessun eroe tradizionale potrebbe: buttare via il potere, non conquistarlo. Su questa linea semplice Jackson orchestra un contrappunto di temi: la corruzione e la rinuncia, l’amicizia come etica, la malinconia della fine (i Porti Grigi come lutto del mito), la politica della speranza (i fuochi di segnalazione), la compassione come sovversione (Gollum, creatura e dipendenza). Ci sono echi biblici (il portare il peso dell’altro come atto di salvezza), suggestioni da tragedia greca (Gollum come eroe per accidente, vittima e carnefice insieme), una malinconia medievale che già sente la fine del canto. È un’epica del non-eroismo che rilegge Tolkien con un sentimento novecentesco: l’impresa è vincere la tentazione, non il nemico.


David Wenham ne Il Signore degli Anelli – Il ritorno del re - @Webphoto
La modernità del film non sta nell’innovazione della tecnica in sé, ma nell’alleanza — quasi umanistica — tra il digitale e l’artigianato, il virtuale e la materia. Nelle bigatures, modelli fisici enormi che permettevano alla macchina da presa di “entrare” nelle città e nelle fortezze come fossero luoghi reali; nella prospettiva forzata, che usava set mobili e piani inclinati per far convivere sullo stesso tavolo un hobbit e un mago senza ricorrere a stratagemmi digitali; nel motion capture di Andy Serkis, che regalava a Gollum un’intensità emotiva mai vista in un personaggio digitale; nelle folle “pensanti” di MASSIVE (l’avanzato softaware usato da Jackson e i suoi collaboratori), eserciti virtuali di individui programmati per agire e reagire, trasformando ogni battaglia in un organismo vivo; e infine nella partitura di Howard Shore, che non accompagna ma parla la stessa lingua del racconto, costruendo un sistema di leitmotiv che lavora come la memoria collettiva: il tema della Contea, dolce e pastorale, ritorna incrinato e stanco, come Frodo al suo ritorno a casa.


Ian McKellen ne Il Signore degli Anelli – Il ritorno del re - @Webphoto
Dopo, il mondo ha cercato di replicarne la formula: Le cronache di Narnia, Eragon, La bussola d’oro. Lo stesso Jackson con Lo Hobbit ha provato a rientrare nella Terra di Mezzo, con più muscoli digitali ma meno grazia. Nel frattempo, l’immaginario fantasy ha trovato altri epicentri: Harry Potter ha scandito un decennio di cinema, Game of Thrones ha imposto in tv un medioevo crudo e machiavellico. Il Signore degli Anelli non è scomparso, ma è stato come avvolto in un velo di normalità: tutti hanno imparato la sua lingua, pochi la sua poesia.
E allora, che cosa ci ha lasciato? Un lessico emotivo universale, fatto di immagini che vivono ancora nei sogni collettivi — i fuochi che si accendono sulle montagne, le colline di Rohan al vento, la barca ai Porti Grigi. Un modello produttivo innovativo, capace di concepire tre film girati back-to-back in un ecosistema creativo (la Nuova Zelanda di Wētā) che ha mostrato come si possa costruire valore fuori dai poli tradizionali. Un’etica del racconto popolare, dove il vero eroe – Sam - è colui che porta il peso e non chiede nulla in cambio: una risposta limpida al mito del prescelto.
L’idea che il fantasy sia una forma della memoria. Non evasione, ma mappa affettiva su cui orientare la perdita: degli amici, delle età, dei mondi che finiscono.


Sean Astin ne Il Signore degli Anelli – Il ritorno del re - @Webphoto
La sua modernità oggi sta nella misura. Nell’epoca della saturazione visiva, Il ritorno del re continua a sembrare immenso perché non confonde mai la scala con il rumore. È epico, ma non bulimico; grandioso, ma non travolgente. E rivederlo in 4K significa restituire alla memoria i suoi colori e le sue ombre, ma anche riascoltare la voce con cui ci ha parlato vent’anni fa.
Vale la pena tornare in sala perché certi addii vanno celebrati di nuovo. Perché Into the West è ancora in grado di farci credere che le fini siano inizi travestiti. E perché, in fondo, la Terra di Mezzo è uno di quei luoghi che esistono finché c’è qualcuno disposto a sedersi al buio, e crederci.