Quanti chilometri siamo disposti a fare alla ricerca di perdono, e di redenzione? Una domanda che suscita l’opera di Andrea Pallaoro, a partire da Medeas, e che torna in Monica, in concorso a Venezia 79 e ora in sala con I Wonder Pictures.

È il secondo capitolo di una trilogia al femminile “che inizia proprio con Hannah, il mio film precedente - dice Pallaoro -, e si focalizza sul tema dell’abbandono, sulle conseguenze e le complessità dell’abbandono; l’abbandono non solo come l’atto fisico di abbandonare, di essere abbandonati, ma come proprio tutte quelle dinamiche psicologiche ed emotive che vengono dal non essere accettati, dal non essere riconosciuti per ciò che si è. E credo che queste siano dinamiche intrinsecamente umane, con le quali tutti facciamo i conti in un modo o nell’altro; e spero che proprio con la storia di Monica lo spettatore possa riflettersi in modo indipendente e individuale in questo personaggio, e forse fare i conti lui o lei stessa con queste dinamiche”.


Lui, lei, questa fluidità di cui parla appartiene anche a Monica.

Monica si identifica come una donna, ed è una donna, e va trattata come tale.
 

Una donna che cerca di nuovo l’incontro con la madre gravemente ammalata.

Una donna che torna a casa dopo una lunghissima assenza, e si riconnette con la madre e con la sua famiglia. E questa riconnessione, questo contatto avviene proprio attraverso il perdono. Ed è per questo che per me lei è un po’ un’eroina moderna, perché è un paradigma per tutti noi. È una donna che riesce a rimarginare in un certo senso i suoi traumi e le sue ferite proprio attraverso il coraggio, e la generosità del perdono.
 

Perdono che non riusciva ad arrivare fino in fondo in Hannah

Giusto. Mentre in Hannah osserviamo una donna che scivola sempre di più, che fa proprio molta difficoltà a fare i conti con la sua identità e con il suo rapporto con il mondo circostante, con Monica, sempre attraverso la stessa lente di questa esplorazione sull’abbandono, assistiamo quasi a un processo inverso: è una donna che invece riesce a rialzarsi. E riesce a fare i conti con il suo passato.
 

Nell’incontro con Monica probabilmente molte persone potranno fare i conti con questi tempi che ancora non vogliono far pace con tutte le diversità.

E questo è particolarmente importante per me, perché stiamo vivendo un momento – forse lo abbiamo sempre vissuto - in cui mi sembra che tanti diritti vengano messi in discussione, i diritti fondamentali, e non sto parlando soltanto dei diritti “trans”. Ma parlando di questi, per riferirci a Monica, penso che sia importante, attraverso storie come quella di Monica, che il pubblico, spero, piano piano riesca a buttare giù questi muri della paura, e dell’ignoranza del diverso. E nel non vedere il diverso come una minaccia, ma anzi come una ricchezza.

Questo è il mio più grande augurio, perché penso che fino a quando i diritti “trans” non verranno riconosciuti come diritti di tutti noi, aiutandoci ad essere una società più evoluta, una società migliore per tutti, questo sarà sempre un problema.
 

La distanza che attraversa Monica per ritrovare e incontrare la madre, quanti chilometri dobbiamo compiere ancora?

Ce ne sono ancora tanti, però sono speranzoso e positivo nel pensare che siamo comunque nella direzione giusta. E che, anche se sono piccoli i passi che facciamo in avanti, ci sono.
 

Ricordo questa lunga camminata in Medeas di una famiglia in un campo inaridito.

Il tema dell’identità, identità propria nel rapporto con la coppia, con la famiglia, il rapporto con la società, è un tema centrale in tutta la mia esplorazione, il mio lavoro.
 

Anche la musica è un elemento importante…

Sì, ho un rapporto con la musica esclusivamente diegetico, però molto molto forte. La musica ha un ruolo importante in questo film. Sono pochi brani, che però ci aiutano ad entrare nel personaggio, e a dare un ritmo al tipo di esplorazione, al tipo di relazione che abbiamo con lei.
 

Un’ambizione che aveva nel realizzare Monica?

La mia ambizione è quella di riuscire a sviluppare sempre di più un linguaggio cinematografico in grado di salvaguardare il tipo di rapporto con lo spettatore che è ideale per me: un rapporto che dà allo spettatore la libertà e l’indipendenza di fare un percorso suo, e di avere in questo modo una catarsi, di capirsi meglio attraverso i miei personaggi, e di capire meglio il mondo che ci circonda.