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Les Tuche 5
In Francia il cinema è una religione laica. Le sale, cattedrali repubblicane. I registi, sacerdoti di un culto che alterna Godard e Gérard Jugnot. Ma anche le religioni, si sa, attraversano crisi di fede. E il 2025, per il cinema d’oltralpe, assomiglia pericolosamente a uno scisma, se Les Échos — non proprio un giornalino del liceo — dedica un articolo al grido d’allarme.
89,5 milioni di ingressi in sette mesi. Detto così sembra un numero imponente. Ma è il peggiore dal 2009 (escludendo gli anni Covid). Tradotto: -14% sul 2024, -17% solo a luglio. Il che fa un bel tonfo, soprattutto se ci si ricorda che il 2024 era stata un’annata da standing ovation.


Avatar: Fuoco e cenere
Ma cosa è successo? La risposta breve è: non c’è stato il miracolo, “l’evento”. Nessun Barbenheimer, nessun Comte de Monte-Cristo in grado di galvanizzare la folla e fare da locomotiva al trenino del box-office. Non c’è stato nemmeno un L’Amour ouf a fare l’outsider di lusso. Solo orfani, vedove, e spettatori confusi che davanti alla programmazione estiva si sono chiesti: ma davvero i Tuche 5?
Eh sì, perché il secondo film più visto dell’anno, ad oggi, è proprio Les Tuche 5, quinto capitolo della popolarissima — e divisiva — epopea comico-familiare francese creata e (quasi sempre) diretta da Olivier Baroux.
Tre milioni di ingressi, che per alcuni potrebbero sembrare tanti, ma per una saga che sembra girare in loop su sé stessa, sono più un segno di stanchezza collettiva che di entusiasmo popolare. In cima alla classifica c’è il live-action Disney Lilo & Stitch, un remake per nostalgici in cerca di peluche. Seguono F1 con Brad Pitt (2,7 milioni di ingressi e zero vibrazioni) e qualche produzione francese che fatica a superare la soglia psicologica del milione di spettatori — tranne Ma mère, Dieu et Sylvie Vartan, che almeno ha il coraggio di mettere Dio e Vartan nello stesso titolo.


L’Étranger
Il fatto è che il cinema francese, oggi, ha smarrito il suo catalizzatore, una liturgia condivisa. Non esiste un film che unisca le generazioni, infiammi le discussioni, riempia multisale e reel. C’è solo una lunga teoria di uscite “in attesa di qualcosa”, come quegli scaffali di supermercato svuotati da un cataclisma improvviso: sai che arriverà Avatar 3, certo, e pure Zootopia 2, e magari anche Kaamelott 2, ma intanto giri con il carrello in mano e lo sguardo perso.
Eric Marti di Comscore, citato da Les Échos, cerca di gettare acqua sul fuoco, dicendo che non è ancora panico. Ma non è neppure così rassicurante. Somiglia a quel grigiore molle delle mezze stagioni. Un’industria che va avanti per inerzia, in attesa di qualcosa che forse arriverà, forse no. Un malessere quieto, da fine impero: si continua a produrre, a uscire, a promuovere, ma senza più crederci fino in fondo.


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E allora, in attesa dell’ennesimo James Cameron che salvi la patria con i Na’vi e le alghe fosforescenti, i cinema francesi incrociano le dita. A ottobre arriveranno Chien 51, Ozon (L’Étranger) e perfino un Jean Dujardin rimpicciolito in L’homme qui rétrécit. Ma il dubbio non svanisce: cosa resta del “modèle français”, quell’eccezione culturale tanto decantata? Forse solo la burocrazia dei finanziamenti e i red carpet?
L’impressione è che la crisi non sia di titoli, ma di senso. Di racconto condiviso. Di desiderio collettivo. Noi italiani dovremmo saperne qualcosa. Conosciamo da prima dei nostri cugini quel pubblico che ha imparato a vivere senza lo stupore del grande schermo. E che preferisce scrollare TikTok, dove le storie durano 15 secondi.
Ma il desiderio, si sa, è strano. Latita, si nasconde, e poi d’un tratto ritorna. Basta un film giusto, un momento, un passaparola inaspettato. E allora la sala si riempie, la luce si spegne, e qualcosa ricomincia a bruciare. Magari non sarà Avatar 3 a salvarci.
Ma forse — come sempre — basterà una storia ben raccontata.