Durante la preparazione del film Il laureato (1965), Robert Redford tormentò Mike Nichols per ottenere il ruolo di Benjamin Braddock, studente insicuro fresco di laurea. Stremato, il regista invitò a cena la star nascente per dirgli di guardarsi bene allo specchio e di essere onesto con se stesso. Era davvero credibile che un tipo come lui potesse avere difficoltà a sedurre una donna? Robert Redford non rispose mai e Dustin Hoffman fu scritturato. L’aneddoto aiuta a comprendere meglio il percorso unico di Robert Redford a Hollywood. Come fare cinema quando si è così belli e si hanno anche ambizioni artistiche? Questa fu l’equazione di Redford. Per tutta la sua vita (professionale), l’idolo romantico per eccellenza del cinema americano ha voluto fuggire la maledizione del ‘bel ragazzo’, dimostrare di essere capace di interpretare qualcosa di diverso dai giovani protagonisti irresistibili e seduttori. Da qui le sue scelte a volte rischiose – il trapper solitario nel western iniziatico di Sydney Pollack (Corvo rosso non avrai il mio scalpo!) o il vecchio campione di rodeo trasformato in fenomeno da fiera di nuovo in un film di Pollack (Il cavaliere elettrico) -, da qui, soprattutto, la sua determinazione a passare dietro la macchina da presa, con un primo film che era l’antitesi del glamour (Gente comune).

Non basta un foglio per raccontare Robert Redford ma resta il cinema, che ha impresso per sempre col suo carisma solare, trascendendo i generi cinematografici. Incarnava da solo una certa idea dell’America, quella dei grandi spazi, degli eroi minerali e dell’avventura allo stato puro, e una certa idea di cinema americano, generoso, impegnato, progressista, romantico, che sovente metteva in discussione le fondamenta stesse della propria identità. Passando con brio dal western alla commedia romantica, dal thriller politico al dramma intimista, sceglieva con cura i personaggi che interpretava e quelli che dirigeva, promuovendo nuovi talenti, alla ricerca forse di un’utopia, nel cuore di Hollywood o lontano da Hollywood. È lui ad annunciare Brad Pitt, a farne l’erede recitando al suo fianco in Spy Game o dirigendolo In mezzo scorre il fiume, un paradiso perduto per l’ecologo panteista che fa del fiume Blackfoot un luogo di pesca miracolosa. Brad Pitt ha gli occhi che ridono anche quando il destino del suo personaggio diventa tragico. Giovane doppio di Redford, ha la stessa bellezza impertinente, quella che ti fa considerare più una star che un attore, quella che porta a sottovalutare il talento. Ma l’effetto prodotto dall’aura non impedirà a Redford di trovare la sua strada e di lavorare tra la solidità dell’eroe e le sue crepe. Complice dell’impresa è Sydney Pollack. Insieme gireranno sette film e sempre insieme lavoreranno ai fianchi quella bellezza bionda che lo metteva perdutamente in pericolo. Guardare il Gatsby di Clayton per credere. Redford non è solo il Gatsby ideale ma è fitzgeraldiano nell’anima, tutto gloria e luce, tormenti dissimulati (la perdita del suo primo figlio) e languore febbrile, fugace bellezza e preludio di una magnificenza crepuscolare.

Ma prima del Corvo e del Condor, dei leoni e degli anelli è un “Kid” a spalancargli le porte del successo. La ragione è evidente nella prima scena di Butch Cassidy. George Roy Hill impone Redford fin dai primi minuti davanti alla vera star del film, Paul Newman. Lo inquadra a lungo, muto dentro una scena statica. Redford ha le carte in mano, il magnetismo di un divo e l’intelligenza di capire che al fianco di un giocatore d’azzardo come Newman deve giocarsi la carta dell’underplay, la lunga tradizione hollywoodiana della ‘carta bassa’ (con una alta in mano), che passava da Spencer Tracy a Marlon Brando. Il fine partita lo proietta al vertice e il suo fascino apollineo dona al finale crepuscolare e violento una nota leggera. Robert Redford ha 33 anni e dominerà tutti gli anni Settanta, infilandosi tra la malinconia conservatrice di Clint Eastwood e l’esuberanza psichedelica di Jack Nicholson. Tornerà a collaborare con Newman e Hill in La stangata (1973), un altro grande film di complicità amicale.

Perdente col volto da vincitore, è morto nella sua casa di Sundance, nello Utah, martedì 16 settembre. Aveva 89 anni e una spina nel cuore, quel dolore di artista ‘non riconosciuto’ che forgerà il carattere a Parigi nel ’56 – il giovane Redford dotato per il disegno sbarca in Europa per affinare la sua tecnica e svegliarsi politicamente quando un gruppo di studenti francesi metteranno in discussione il ‘ritratto’ ammirativo del suo Paese – e incarnerà col suo fisico WASP un’America positiva ma riflessiva. Se il ruolo migliore di Robert Redford sarà sempre quello di scusarsi di essere Robert Redford, la realizzazione delle sue esigenze artistiche comincia dal suo amore dichiarato per la natura, riscoperto grazie alla moglie, Lola Van Wagenen, storica e figlia mormona dello Utah. In quello stesso stato, coi soldi di Butch Cassidy, si compra un’area selvaggia a 1.700 metri di altitudine e una stazione sciistica. Il resto è storia, storia del cinema e di impegno condiviso con Pollack per cui compone un eroe che lascia la civiltà corrotta per vivere nel cuore di una natura selvaggia e vigorosa (Corvo nero non avrai il mio scalpo!). Una lezione di ecologia politica consacrata alla bellezza e alla brutalità dell’America in costruzione, dove l’uomo deve domare la natura per sopravvivere. Lo sguardo si fa più caustico in Come eravamo, il loro più grande successo comune, che sembra quasi scritto da Francis Scott Fitzgerald. In questa cronaca amorosa sui danni provocati dal maccartismo alle menti e ai cuori, è la protagonista di Barbra Streisand a rimanere fedele alle sue idee progressiste nel corso degli anni. Redford, al contrario, attraversa il film come un figurino – bello, bellissimo nella sua immacolata uniforme militare - che si lascia insensibilmente vincere dal lusso e dall’apatia. Pollack dipingerà sempre Redford come un uomo irresistibile (La mia Africa), un “bello addormentato” che verrà risvegliato da Barbra Streisand, lasciando indovinare una complessità e una profondità nascoste sotto l’imperturbabilità del suo pullover bianco.

Di quel volto ideale, Pollack farà sempre un superbo perdente, rifugiato nella natura e a est di Hollywood, dove installerà un ecosistema che permetterà di coltivare molti talenti, da Steven Soderbergh a Quentin Tarantino, da Paul Thomas Anderson al più recente Sean Wang. Perché il contributo di Redford al cinema non si limita all’interpretazione e alla regia. Nel ’78 ficca nelle rocce dello Utah una struttura di sostegno (laboratorio, workshop, tutoraggio…) per registi indipendenti, rivitalizzando il cinema americano e inventando un genere: il film Sundance, indie-chic e dolcemente sovversivo. Tra arte e natura, il wonder boy insolente ha un nuovo adagio da sussurrare al suo Paese, mille film da sostenere, una sensibilità progressista da incoraggiare accanto a una filmografia che testimonia una costante preoccupazione politica, un desiderio di attaccare criticamente il modo in cui gli Stati Uniti hanno tradito la promessa originaria. Con il giornalismo, il cinema per lui doveva continuare a fornire un contro-potere, continuare a sondare la coscienza americana, a prendersi cura del mito come Bob faceva col suo nel survival marittimo di J. C. Chandor (All Is Lost). Homo faber nella tempesta, non ha bisogno di nessuno per esistere. A 77 anni è figura di prua di una lotta ineguale, impeccabile, incredibilmente biondo, l’ultimo esemplare della sua specie in terra, in mare e in una suspense metafisica. Naufrago magnifico, come gli eroi di Conrad ha trovato in mare il senso il limite della sua esistenza. Buon vento, Bob.