“C'è qualcosa di terribile nella realtà, e io non so cos'è. Nessuno me lo dice”. La frase fa parte dei dialoghi dell'incomunicabilità di Il deserto rosso, Michelangelo Antonioni, 1964. Facilmente adattabile, negli Anni Venti del Terzo Millennio, al nuovo corso della commedia italiana. Tema: il senso della commedia, quello che un tempo era il sesto senso del cinema, il sensore più acuto su società, morale, politica, è oggi solo un senso di colpa? C'è una quota psicanalitica da non trascurare nel difficile percorso di transizione di un filone così amato, in quella traversata del deserto appesantita dalla pandemia, ostacolata dalla crisi, tradita da un'ansia di ricerca che diventa furia, fretta, fraintendimento, vicolo cieco.

Carlo Verdone al recente Lecco Film Festival ha sostenuto che camminare sull'orlo del precipizio fa paura ma la colpa del dissesto è anche dei cineasti che si sono dimenticati la qualità, che hanno abbandonato l'impegno sociale, morale, culturale, che hanno aggiunto poco o niente a quel magnifico patrimonio di idee e fantasie. Troppo spesso cine-Italia sembra ostaggio della sua storia, di un inesorabile complesso di Edipo che minaccia la sopravvivenza della specie e contraddice i buoni propositi. La rincorsa per essere all'altezza di chi è venuto prima toglie lucidità, allontana dall'obiettivo, può portare su strade sbagliate. Cancellare il Padre, è l'imperativo. Tutti devono qualcosa a qualcuno: pagare quel dazio impedisce di volare. L'ombra materna-paterna squaderna il quadrante creativo. Freud e la bellezza possono salvarci.

Bianca (Webphoto)
Bianca (Webphoto)
Bianca (Webphoto)

“Gli amici ti deludono, la gente normale no”, dice Nanni Moretti in Bianca. Gli Anni Sessanta sono stati i migliori, da Divorzio all'italiana (1961), a cui si deve l'etichetta, a L'armata Brancaleone (1966) e Il medico della mutua (1968). La stagione di Sordi, Tognazzi, Gassman, Mastroianni, Manfredi e Monica Vitti. La golden age di Germi, Nanni Loy e Monicelli, di Steno, Comencini, De Sica, Wertmuller, Scola, Magni, Dino Risi e molti altri. Buoni frutti negli Anni Settanta: e anche allora si parlava di crisi strutturale ma in cartellone c'erano titoli come​ Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970), C'eravamo tanto amati (1974), Amici miei (1975), Un borghese piccolo piccolo (1977).

Negli Anni Ottanta, aperti da La Terrazza, e poi nei Novanta la variabile cinepanettone ha irrobustito gli incassi ma illanguidito gli sforzi, contribuito alla mancanza di coraggio dei produttori, schematizzato le sceneggiature, limitato attori e registi. Negli Anni Duemila, di fronte alle avvisaglie della crisi, la corsa pazza a trovare formule e soluzioni attraverso contaminazioni, surplus creativi, sconfinamenti nella maniera.

Le eccezioni sono poche: è tutto un girare su sé stessi per tornare sempre daccapo. E allora non è un caso che un film come Perfetti sconosciuti, uno dei migliori della nuova commedia italiana, abbia una struttura semplice, diretta, teatrale: una tavolata di amici, un tema sensibile come l'intimità violata, il riflesso di una società fuori controllo di spioni, spiati, vittime e carnefici.

Dicono i manuali che il complesso di Edipo è "un insieme di desideri amorosi e ostili che il bambino prova nei confronti dei genitori”. L'eredità della commedia all'italiana pesa, uh se pesa, ma la complessiva povertà di invenzione dei successori rischia di spezzare il cordone ombelicale con gli spettatori. La formula è tornare alle radici, ritrovare il sapore della leggenda. Ma senza remore o riverenze. Le rigidità narrative che un tempo si addebitavano alle velleità del cinema d'autore, adesso sono il frutto di talenti acerbi, titubanti, rilassati sul passato.

Perfetti sconosciuti (Webphoto)
Perfetti sconosciuti (Webphoto)
Perfetti sconosciuti (Webphoto)

La formula dark di Fabio e Damiano D'Innocenzo, il loro scavare in mondi criptoperiferici annebbiati dalla malavita e dal malcostume è un tentativo di esplorazione del reale che va seguito. Altrettanta attenzione meritano le innovazioni di Gabriele Mainetti: da Lo chiamavano Jeeg Robot (2015), attraverso il tentativo di trasportare l'epica del supereroe nella cintura metropolitana, a Freaks Out (2021), dove s'affaccia l'intenzione di rintracciare un più moderno punto di fusione melodrammatico. Se la barca del cinema rischia di rovesciarsi, tutti finiranno bagnati. Produttori, esercenti, registi, attori, spettatori, critici.

Cercansi indizi di cambiamento, risorse, investimenti, codici e linguaggi. Il pubblico sonnecchiante e stralunato si vede girare intorno titoli in cui si districa a fatica. Teme più del fuoco le boiate pazzesche e cerca lumi nelle schede critiche: da cui spesso arrivano risposte sbagliate. Se capisce l’antifona e riesce a liberarsi dalla stretta promozionale, non abboccherà mai più all’amo. Là in fondo c’è il declino. I sussidi sono distribuiti spesso in maniera cervellotica. Nessuno ama i propri film come la Francia: il sistema rispetta le quote e protegge fino allo stremo il prodotto. L’Italia invece arranca, stremata da un caos organizzativo, per sponde contrapposte, e da una concorrenza (spesso) da cortile. Il sistema scricchiola e il tempo per riparare le giunture pericolanti è poco.